Ecco come si presenta al pubblico di Ripost Mariacristina Di Giuseppe:
”Tra immagini e parole, l’onda prepotente della vita, la bellezza, la natura che ci attraversano, ci nutrono e ci svezzano all’esistenza. Siamo il vocabolario di un grande romanzo d’avventura. I nostri pensieri ne sono la punteggiatura, strumento minimo nel segno, appena pronunciato, ma potentissimo nella proiezione, nel dare senso e sentimento a una sfilza di lettere in ordine convenzionale. Amo la fotografia, la pittura e tutte le forme d’arte. Sono sommi atti di gratitudine, slanci mirabili dell’animo umano”…
Ho conosciuto Mariacristina in un collegamento online riservato agli scrittori organizzato dalla Casa Editrice dell’editore Ottavio Navarra. Sono rimasto affascinato da un suo intervento artistico, così ho deciso di intervistarla. Cristina ha la voce di una speaker radiofonica ama molto la natura, e tutti coloro che la difendono e proteggono con azioni quotidiane. Il suo fiore preferito è la peonia. Gli alberi esercitano su di lei un grande fascino e le suscitano un sentimento di gratitudine perché sono il respiro del mondo. Il suo colore preferito è “l’arcobaleno”. Ama la tranquillità della campagna, l’energia del mare, il misticismo dell’alta montagna. È una persona che sa ascoltare, anche le parole non dette … Ama molto cucinare e impazzisce per i dolci siciliani, soprattutto quelli con la ricotta. Sono rimasto incantato nel leggere il suo testo L’armaru, un libro onirico, una sorta di viaggio tra Palermo, Roma, Parigi e Venezia. Nel volume c’è molta poesia, ed espressioni che non si dimenticano: “Parigi sa sciogliere le briglie e ci rende simili a cavalli impazziti”. “Questa notte la luna indossa un velo da sposa di organza leggera… vorrei che tu fossi qui”. Le donne certe volte sono ladre di vita, si confidano e le confidenze femminili riconoscono solo il tribunale del cuore. Ci sono molte ragioni per leggere questo libro, c’è la musica straordinaria eseguita da Giuseppe Greco con una voce unica al mondo, quella di Laura Mollica e tante storie di donna che hanno sofferto e raccontato la loro vita…
Ma andiamo a conoscere da vicino Mariacristina.
-Quando inizia la tua avventura nel mondo della scrittura?
Ecco che subito irrompe la Sicilia! La mia avventura nella scrittura è nata con una poesia scritta guardando il mare da un affaccio di un albergo siciliano. Prima di allora non avevo mai pensato di scrivere in termini creativi. Avevo già superato i trent’anni e non mi aspettavo un esordio in quella direzione. Appassionata di fotografia, utilizzavo le immagini come parole, era quello il mio modo di descrivere il mondo, le persone, i miei stati d’animo. Quel giorno, però, è accaduto qualcosa di particolare. Mentre scrivevo su un foglio di fortuna, sentivo l’emozione scorrermi nelle vene. Fu un evento inaspettato e lietissimo. Era una poesia sul mare, inteso come specchio delle profondità umane. Una poesia ingenua e genuina. La ricordo sempre con tenerezza.
-Che bambina sei stata?
Una bambina seria e composta, forse timida. Mi sentivo già grande anche in tenera età; mi percepivo diversa dai miei coetanei. Il primo giorno di scuola lo trascorsi offrendo parole di conforto ai bambini che piangevano per il distacco dalla famiglia. Li rassicuravo dicendo loro che non c’era proprio nulla di cui preoccuparsi, che si trattava di un distacco temporaneo e che non sarebbe successo nulla di male. Avevo un fratello più grande e cercavo di spiegare che potevano fidarsi delle mie parole: erano parole garantite…
-Perché è importante il numero tre nella tua vita?
In questo momento, perché tre sono i romanzi che ho scritto: Sale di Sicilia, Maremmana e L’armaru. Tutti e tre per i tipi di Navarra Editore. Ciascuno rappresenta un passaggio di vita importante. Sono come figli. Io che non sono madre, ho lasciato tracce di me nelle loro pagine, e spero che nel tempo crescano e vadano lontano, tra la gente. Spero che la famiglia si allarghi, magari a multipli di tre…
-Tra le tue passioni c’è la fotografia, come si realizza una foto di scena?
Posso parlare del mio modo. È importante entrare in punta di piedi nella “bolla artistica” del momento e non guardare subito attraverso l’obiettivo. Bisogna respirare l’atmosfera, lasciarsi andare alle emozioni come un comune spettatore, cercare la verità negli occhi e nei corpi degli attori e dei musicisti. Fatto ciò, si possono imbracciare la macchina fotografica e il mestiere. L’attrezzatura e l’esperienza sono importanti, ma non sono sufficienti a restituire la magia del palcoscenico se non sono alimentati dall’emozione di chi scatta le immagini. Non sempre il meccanismo si mette in moto nel migliore dei modi. A volte si può rimanere freddi e indifferenti e portare comunque a casa un lavoro decente. Le immagini particolarmente belle, però, sono quelle che hanno alle spalle un grande coinvolgimento.
-Vogliamo parlare del tuo ultimo libro, L’armaru, diventa il centro di una storia e il centro delle vite degli altri. A quali lettori si rivolge la tua opera?
A tutti coloro che sanno posare uno sguardo attento e garbato sulle vite degli altri. La mia scrittura è molto sentimentale, anche quando descrive situazioni dolorose, forti, dure. Non cerco mai il sensazionalismo. Il mio obiettivo è quello di travasare e condividere emozioni, non quello di stupire o aggredire emotivamente i lettori. Mi piace l’idea di arricchire il loro patrimonio sentimentale. Le storie, gli intrecci, servono a portare alla luce l’indole dei personaggi e a farceli sembrare persone, a farceli percepire come esseri umani veri e credibili. Il plot è un elemento di servizio e non il fine dei miei romanzi.
-Un armadio colore ebano due metri per due, non ne fanno più, con il legno pregiato massello, sembra una storia del passato…
Il fatto che, oltre a descrivere le sue molte altre valenze, io ponga l’accento anche sulla fisicità dell’armaru, non è un caso. Amo i manufatti, quelli realizzati con sapienza artigianale e maestria, siano essi oggetti destinati a un uso specifico, quotidiano o meno, siano essi destinati semplicemente a farsi ammirare per bellezza ed estrosità. Amo gli oggetti che sono stati pensati, realizzati e lasciati andare per il mondo da individui talentuosi, custodi di antiche sapienze. Sono tendenzialmente nostalgica, lo ammetto, ma non disdegno la contemporaneità, e rimango affascinata anche dalle nuove tecniche di produzione e dai nuovi materiali, persino dalla produzione in serie. In questo caso vale la qualità del progetto, il suo avere un’anima, una ragione non esclusivamente consumistica. La serialità non fa che portare un po’ di questa anima nelle case di tanta gente, quindi, ben venga. Il bello per tutti è un bell’obiettivo.
-Cosa si può nascondere nell’armadio?
L’armadio contiene le nostre paure, le nostre delusioni, le nostre ansie, i nodi non sciolti. Siamo noi stessi a stiparli al suo interno, siamo noi stessi a riporre la chiave in qualche luogo lontano dalla nostra coscienza, dimenticandolo appena possibile. Gli armadi contengono gli scheletri, si sa. I sogni, quelli, li mettiamo nel cassetto, con la speranza di tenerli a portata di mano. I sogni sono carburante per l’anima, le paure sono una zavorra. A ogni cosa il suo posto…
-L’armadio può servire per un cambio di abito, ma anche per un cambio di scena…
Nel caso del mio armaru questa affermazione è pienamente valida. Nella versione teatrale, che ha cronologicamente preceduto il romanzo, l’armaru contiene abiti che si fanno corpi, voci, storie di donne siciliane. Nel romanzo, l’armadio si fa passaggio segreto, varco, che permette ad Agata, la protagonista, di calarsi in contesti lontani dalla sua attualità, di muoversi nelle pieghe di un altro tempo o di un altro spazio.
-Lasciami immaginare che in un armadio c’è un mondo: i sogni delle donne che hanno cento e più vestiti, alcuni mai indossati. Ho letto che quando le donne sono tristi e incomprese non ne trovano uno da mettere, li buttano tutti a terra e gridano forte contro il mondo…
In questo tipo di armadio, quello che effettivamente contiene abiti e accessori, in realtà, come giustamente sottolinei, le donne accumulano spesso rappresentazioni di sé. Ce ne possono essere molte in un solo armadio, anche assai distanti dalla propria personalità. Credo che si possa giocare con questi elementi, ma senza esagerare. L’importante è mantenere qualcosa, anche solo un dettaglio, che ci identifichi per quello che siamo, che dichiari il nostro stile e di conseguenza il nostro modo di stare al mondo. In caso contrario sarebbe solo una maschera, e le maschere si indossano solo a carnevale, o a teatro. Se una donna urla contro il mondo perché non ha nulla di giusto da mettere, sta manifestando il suo senso di inadeguatezza, la sua grande fragilità, e penso, come te, che non si tratti di un semplice capriccio.
-Nell’armadio sono stipati a forza i segreti, i tabù, i dolori, i sogni, i progetti, gli incubi, le paure, le pene di tutti, anche quelle degli uomini che cercano camicie e cravatte e chiedono di continuo aiuto alle donne, “che mi metto oggi alla conferenza”? Togli quella sconcezza risponde lei dal bagno, gridando, questo vestito lo devi buttare e se non lo fai tu lo farò io…
Davanti a un armadio chiuso è difficile agire, ma di fronte a un armadio aperto si può fare dell’ottima psicoanalisi, anche passando dalle cravatte inadeguate degli uomini…
-Cosa c’è nelle morbide mani di una donna?
L’accoglienza, lo spirito materno, la sensualità, la presa che non lascia. Anche in quelle ruvide si può trovare molto: l’essenzialità, lo spirito di sacrificio, l’abnegazione a un lavoro duro, la resistenza.
-Ogni donna va incontro al suo destino: “Appi cinqu figli, cinqu voti vinni nu munnu e cinqu voti mi ni pozzu iri, muriri. Na vita pi ogni figliu. Chistu è chiddru chi si paga pi essiri matri e n’un vogliu livatu nenti”. In questi versi c’è molta poesia, ma ci sono anche le amarezze della vita delle donne siciliane come racconta Salvatrice Buscemi…
Salvatrice è tale di nome e di fatto. Salva, così come viene chiamata, è una madre custode di dignità e riparatrice di offese. È una di quelle madri le cui mani non lasciano mai. I sentimenti in Sicilia sembrano avere una cassa di risonanza più imponente. Si vive tutto più intensamente; il bene e il male acquisiscono tinte forti, viscerali, che spesso sfociano in un lirismo del quotidiano, in una teatralità che lascia un pò storditi e, al contempo, affascina gli osservatori esterni.
-Dal culo a terra si può ripartire una seconda volta?
Gli scossoni, quelli che tramortiscono e ci fanno cadere culo a terra, ci obbligano spesso a rialzarci e a riposizionarci. Difficilmente, quando ci si rialza dopo una caduta si recupera la posizione iniziale. In alcuni casi questa circostanza può trasformarsi in vantaggio. Da una posizione diversa, anche il punto di vista cambia, e il modo di relazionarsi con il resto del mondo. Non è detto che ciò significhi essere più felici di prima, ma probabilmente molto più consapevoli.
-Le leggi dell’amore non temono confini…
L’amore è qualcosa di terreno e al contempo soprannaturale, e in quanto tale non ha limiti. Possiede i super poteri… mettiamola così… Le sue leggi godono del fatto di essere leggi del cielo e della terra.
-Esiste la chiave di questo armadio?
Certamente. Bisogna solamente fare uno sforzo di volontà per trovarla.
-Perché il personaggio di Agata adatta la sua vita alle regole del palcoscenico?
Agata è un’artista abituata a calcare le scene. È lì che esprime il meglio di se stessa. Gli applausi sono la sua benzina ma anche il suo limite. Li vive come una legittimazione e ne diventa dipendente. Questo meccanismo perverso la costringe a replicare i meccanismi del palcoscenico anche nella vita reale dove agisce, al contempo, come un’attrice e come una regista. Agata tenta di governare le proprie e le altrui azioni come fossero azioni sceniche, al fine di trovarsi costantemente al centro della scena. Quelli che appaiono come segnali di egocentrismo e di carattere forte, esprimono, in realtà, una grande fragilità emotiva. Agata ha bisogno di guadagnare il centro della scena perché non è al centro di se stessa. Ha bisogno di attuare silenti regie nella vita reale perché sente di non essere protagonista della sua esistenza.
-Le lancette del cuore corrono più veloci di quelle dell’orologio…
Diciamo che non seguono il tempo così come inteso dall’umana convenzione. Sono incontrollabili e sovversive.
-Si può depositare una carezza nell’armadio?
Agata lo fa. È un modo per carezzare la nonna e i suoi ricordi di bambina e ragazza, quindi anche se stessa. In generale, le carezze creano un contatto, quindi un ponte. Funziona anche con gli oggetti. A me capita di toccarli quando voglio ringraziarli, o per nostalgia, o semplicemente per conoscerli.
-Nella vita ci si può affezionare a tutto, anche ad un armadio?
Se spettatore di importanti passaggi di vita e contenitore di bei ricordi e di tanto altro, certamente.
-Il brano occhi di mennula è cantato da Laura Mollica con una voce assai struggente accompagnata dalla chitarra “lamintusa” di Giuseppe Greco. È un testo bellissimo di Beatrice Cerami che entra dentro l’anima…
Concordo. Ringrazio Beatrice per avermi concesso di utilizzare questo splendido brano che sembra scritto appositamente per l’occasione, anche se in realtà non è così. Si incastona perfettamente nel contesto. I rimandi alle atmosfere musicali del passato coniugati alla contemporaneità del pezzo e all’arrangiamento senza tempo di Giuseppe lo rendono una sintesi perfetta degli universi temporali del romanzo.
-Chi sono i mostri che infettano la terra?
La sete di denaro e potere, e il consumismo sfrenato, spesso indotto da coloro che sono inverosimilmente assetati di denaro e potere. Viviamo in un paradiso terrestre che stiamo follemente cercando di trasformare in un inferno.
-Cosa può succedere se due donne si mettono a chiacchierare in un salotto palermitano davanti ad una pasta di mandorla o davanti un cannolo?
Tendenzialmente cose belle. Nel caso specifico, di trascorrere tempo buono e bello in compagnia di una grandissima artista, animatrice culturale e amica, e di dare vita a un progetto che ci coinvolge molto artisticamente sentimentalmente.
-Una donna sa ridere di dolore?
Il romanzo è dedicato alle donne d’amore e al loro talento. Nel caso di Mariù, che smette di ridere di rabbia e inizia a ridere di dolore, vuol dire compiere un atto di sublimazione del dolore, e farlo in nome dell’amore.
-Come sta diventando questo nostro mondo, che non si commuove con la musica di Mozart ed è sordo al pianto dei bambini…
Un mondo che rinnega le sue ricchezze più grandi, un mondo che si infligge colpi mortali. I bambini, di ogni etnia e religione, come ho avuto modo di scrivere in una dedica nel mio precedente romanzo, “sono dinamo universali e illuminano a giorno la nostra esistenza”.
-La Sicilia prima ti schiaffeggia col dolore e qualche volta ti accarezza con la meraviglia…
È proprio così… in questa gimcana tra rabbia e meraviglia, bisogna trovare un punto di equilibrio per osservare con lucidità questa Terra magnifica. In apertura di romanzo ho voluto riportare la citazione di una frase detta da Letizia Battaglia durante un’intervista rilasciata a Eleonora Lombardo: “È come se Palermo nel suo disordine fosse un input etico, morale, per chi vive fuori. Suscita rabbia e amore e fa venire voglia di intervenire”. Così è stato anche per me. Anche io sono caduta nell’incantesimo.
-Tu hai contatti con i più grandi artisti del nostro tempo come Neri Marcorè, Edoardo De Angelis, Tosca. Da quando tempo collabori con loro?
Hai detto bene. Sono grandi artisti e, soprattutto, persone che stimo tantissimo dal punto di vita umano. Edoardo l’ho conosciuto a Palermo nel 2001, Tosca poco dopo, e Neri nel 2011. I loro percorsi artistici sono diversi, ma in alcuni casi si sono incrociati, e sono accadute cose bellissime. Possiedono tutti e tre una grande sensibilità, che trasferiscono nel lavoro e nella vita.
-Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Cercare costantemente di migliorare come persona, di evolvere sentimentalmente e umanamente. Non credo che si faccia mai abbastanza in questa direzione. Io lo considero un vero impegno verso me stessa e verso gli altri, un lavoro. Da questo punto di vista, mi considero sempre in viaggio, sempre indaffarata. Per quanto riguarda la scrittura, intendo seguire il cammino de “L’armaru” e concentrarmi molto sulla produzione della sua versione teatrale. Lo scorso giugno, a Palermo, Laura Mollica ne ha messo in scena una splendida anteprima. Una versione da lei diretta e interpretata, con l’ausilio di Giuseppe Greco per la parte musicale e di Rosario Neri per quella cinematografica. Se siete curiosi di averne un piccolo assaggio, questo è il link: https://youtu.be/VPAHx7vYq2w
Biografia
Mariacristina Di Giuseppe, romana di nascita, sin dagli anni dell’università frequenta gli ambienti della fotografia, della musica e del teatro. È autrice di testi teatrali, musicali e canzoni. Ha collaborato ai più recenti lavori discografici di Edoardo de Angelis, quali Historias, Sale di Sicilia- in cui la sua lirica Spasimo è prestata alla voce di Andrea Camilleri – Non ammazzate Anna, e Il cantautore necessario. Ha collaborato, inoltre, alla scrittura di testi per Amedeo Minghi, Neri Marcorè, Milva, Antonella Ruggiero. Per Navarra Editore ha già pubblicato nel 2014 il romanzo Sale di Sicilia e nel 2019 Maremmana.