Il libro di G. Maurizio Piscopo su Danilo Dolci continua ad ottenere consensi in campo nazionale. La recensione di Antonella Chinnici

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Il volume Ci hanno nascosto Danilo Dolci di G. Maurizio Piscopo, edito da Navarra Editore, ha destato molta attenzione a Palermo, in Sicilia e in tutta Italia. Sicuramente, l’interesse suscitato da questa pubblicazione muove pure dal titolo del libro che rinvia, subito, al senso forte dell’operazione scrittoria di Piscopo, ovvero quello di sottolineare certe responsabilità, anche politiche, colpevoli di voler far calare una coltre di oblio sull’opera di Dolci, opera questa rivoluzionaria seppure perseguita assolutamente e sempre attraverso la pace; altro motivo di pregio sta nella intensa e interessantissima introduzione del prof. S. Ferlita nonché nel toccante quanto lucido ricordo nella postfazione del figlio di Danilo, Amico; altro elemento di intrigo intellettuale del libro sta nelle interviste – fatte, peraltro, con perizia e acume giornalistici – a personalità rappresentative che hanno direttamente lavorato o conosciuto Dolci.

Altro momento di forza del volume è la volontà autoriale di sottrarre alla dimenticanza un intellettuale geniale ma anche scomodo in certi contesti sociali e politici; la scrittura del volume può inoltre intercettare e interessare trasversalmente adulti nonché bambini e giovani che tanto avrebbero da raccogliere dall’opera e dall’eredità di Danilo. E questo anche perché Dolci è stato un vero maestro che si è saputo “chinare” verso i più piccoli, come pure verso tutti gli uomini dimenticati, quelli più deboli e in difficoltà tout-court.

Dalle pagine di Piscopo si evince quanto, per Danilo, l’‘educazione’ sia stata sempre un’azione ‘politica’ nella convinzione che la modalità educativa ripristina e riconferma i processi politici: l’educazione autoritaria ed ex cathedra ripropone, infatti, il sistema politico autoritario, quella invece attivata da Dolci vuole innescare nelle coscienze una consapevolezza critica che esiti in processi di liberazione sociale e dei singoli. L’educazione tradizionale perpetua l’oppressione dell’alunno inteso come un ‘oggetto’, mentre la maieutica dolciana considera il discente un ‘soggetto’ dell’azione educativa vista quale dialogo tra maestro e studente.

L’educazione, secondo Danilo, implica – come da Piscopo evidenziato – quell’azione politica emancipante che rende l’alunno agente di cambiamento scardinando ab imo il processo educativo tradizionale sostituito da un’azione in cui docenti e discenti imparano entrambi e insieme crescono: Danilo è d’accordo con P. Freire per cui “nessuno educa nessuno” mentre “gli uomini si liberano in comunione” e, come sottolineato, da C. Levi il suo era il tono di “un uomo che ha fiducia negli altri…e fa sorgere la fiducia attorno a sè” . Così, “armato” di fiducia, Dolci pensa di poter far sorgere, per forza autonoma e spontanea, la vita anche dove ciò potrebbe sembrare una vera utopia.

Dalle pagine di Ci hanno nascosto Danilo Dolci si evince quindi quello che lega Danilo a figure quali Don Bosco, Rodari e Don Milani, ossia a molti grandi che hanno saputo deragliare dai binari piantati dal conformismo pedagogico dimostrando quanto l’educazione sia e debba essere un processo da ripensare e reinventare cotidie; quanto debba essere sempre pensoso della creatività dei discenti e del valore di liberazione della parole come sostenuto da B. Brecht di cui Dolci condivideva la fiducia nella possibilità di cambiare dissacrando luoghi comuni, disancorandosi dal perbenismo coi suoi pregiudizi e ponendo al centro una società amica dell’infanzia.

La nonviolenza di Danilo è la vera rivoluzione, quella che resta, quella attuata da lui con le “armi” dell’amore e della solidarietà, uniche spinte, queste, veramente affratellanti. D’accordo con J. Piaget e J. Dewey ‘educare’ significa scienza dell’arte dell’educazione; a Dolci non piaceva, infatti, il termine ‘pedagogia’ che significando in greco “ guidare per mano un bambino” porterebbe a pensare l’alunno come un perenne infante cui non lasciar mai la mano e la guida. Come sottolineato da Amico, nella postfazione, per suo padre, si trattava di riconoscere identità, individuare desideri, talenti, bisogni magari inespressi oppure da slatentizzare. Si trattava – e Danilo stesso rimarcava ciò in un’intervista rilasciata a M. Tarozzi – di una maieutica nuova concepita quale ”processo omnidirezionale” e differenziatosi in ciò dall’unidirezionalità della maieutica dello stesso Socrate.

Per il filosofo greco, inoltre, non c’era da imparare dagli alberi, mentre, per Dolci, anche un gelsomino”non parla ma ti raggiunge sempre col suo profumo” e così, questo essere olezzante ci chiede qualcosa, ovvero di essere quali api sui fiori e di stare con questi nello stesso rapporto, in una” chiave di reciprocità” ossia di vicendevolezza pronta sempre a farsi “aiuto reciproco”. Dolci pensava a costruire, come ha fatto, spazi ”più adatti” dove ciascuno si trovasse “a proprio agio”, dove si desse “riconoscimento” in un complesso di condizioni maieutiche in cui educare era e significava partire ”dal basso, dall’altro”; insegnare non è quindi “dirigere” in una prestabilita direzione in quanto l’azione educativa inizia dall’auscultazione attenta dell’alunno, non da una cattedra; da questa infatti si è spesso “spacciato” un sapere grigio che non traduce i sogni in progetti e che, di frequente, i giovani si rifiutano di ingurgitare sentendolo nella sua insipida e violenta quintessenza; si rifiuta, infatti, un sapere magari pure trasmesso – come sottolineato da Recalcati ne L’ora di lezione – da maestre “scure” in volto e magari pure di nero vestite, depositarie di un sapere infallibile, capace solo di spegnere ogni desiderio di conoscenza, di chiudere porte e mondi come pure orizzonti…! E, così, la triste noncuranza di maestrine di un sapere che non coincida col proprio, ripetitrici a vita di un sapere morto o “in salamoia”, consegna gli alunni ad un’apatia rassegnata cui si mescola spesso fastidio, noia e, a volte, timore o terrore. Il rifiuto di imparare resta l’unica possibilità di ribellione, di personale e silente protesta studentesca nell’ostinato rifiuto di introiettare un sapere idiota che presume di coincidere, stoltamente, con una rigida verità e con un asfittico quanto asfissiante sapere assoluto.

Di contro, un vero maestro può cambiare un destino e una vita da “vuoto a perdere”, può essere occasione di rinascita con la sua ostinazione anche disperata nella quotidiana lotta per trarre da ciascuno il meglio. Con un “vero”magister si nasce di nuovo; perché, una persona non nasce solo nell’atto di venire al mondo ma, rinasce con i veri maestri che sono tracce luminose nel buio di certe esistenze opache e scure; i veri maestri sanno invertire le rotte di vite destinate al fallimento anche da certa forza o violenza predittiva di maestrine che etichettano in negativo un alunno; spesso dunque i destini di molti giovani alunni con i teoremi predittivi in negativo di tanti docenti finiscono per auto avverarsi rispondendo, in tal modo, alle spietate, sferzanti aspettative negative confermate, ogni mattina da insegnanti, a volte anche un pò incattiviti e malauguranti, trincerati in una austerità gelida, imbruttiti e abbrutiti da una routinaria ripetizione insulsa ed insensata d’un sapere stantio e in avaria! Un vero educatore, per D. Dolci dovrebbe trasformare ogni mattina scolastica in una ripartenza suscitando un sacro ‘fuoco’; quest’ultimo sarà, per l’alunno, lascito e patrimonio esistenziale di forza, di caparbia volontà, nonché di capacità di speranza e di ostinazione al sogno anche in quelle tristi realtà dove meno tutto ciò possa sembrare possibile ed auspicabile.

E Danilo – come ricordato nel volume di Piscopo da Padre C. Scordato – era un vero magister, era cioè quello che “si china con attenzione” sugli alunni eppure sulle parole che legge e da cui deve sapere estrarre mondi, universi verso i quali gli alunni vorranno correre con viva curiosità di scoprirli e conoscerli. Un vero educatore, infatti, deve partorire soggetti desideranti d’un desiderio singolare, d’una focosa passione che, con la sua forza, può orientare e riorientare esistenze magari votate ad un destino di smarrimento, di perenne inconsapevolezza o di mancata individuazione del proprio sè e del proprio esserci.

* Antonella Chinnici Professoressa ordinaria di italiano e latino presso il liceo classico Umberto I di Palermo.