L’altro giorno sono andato al Cassaro per seguire uno spettacolo del Festino, fuori dal comune, in diretta dal Balcoscenico del Monastero di Santa Caterina dal titolo: Il miracolo della Rosa dedicato alla Santuzza di Palermo. Uno rappresentazione molto bella con la partecipazione dei maestri Giuseppe Greco alla chitarra e agli strumenti a plettro, con la partecipazione di Daniele Schimmenti alle percussioni. Uno spettacolo straordinario con un narratore d’eccezione Christian Pancaro che con la sua splendida voce ha raccontato la storia, le curiosità del festino dalle origini ai nostri giorni, dalle musiche, alla festa, dai cibi, alle stranezze con proverbi siciliani di grande effetto scenico. La gente seduta sugli scalini della chiesa di San Matteo ha seguito la performance con religioso silenzio, tutti si fermavano ad ascoltare, vecchi, giovani bambini, ragazze, turisti di ogni parte del mondo. Un “passiu” incredibile in quella strada con un passaggio di carrozze, lape, taxi e motori che sembrava mezzogiorno. La voce di Laura con le serenate, i triunfi, le canzoni d’amore e di sdegno arrivava diritta al cuore. In un angolo della strada il regista Rosario Neri con le sue attrezzature ha ripreso minuziosamente ogni sequenza per raccontarla in un documentario. Ma andiamo a porre qualche domanda a Laura Mollica memoria storica della musica popolare nel mondo.
-Quando hai iniziato a cantare?
Ho cominciato prestissimo. Già a tre anni cantavo in orchestra. Era il 1967 . Ho partecipato allo Zecchino d’Oro con la canzone “La minicoda”. In tanti ancora la ricordano. Attraverso le cartoline del “Corriere dei Piccoli”, il pubblico da casa potè votarla come la più bella canzone della nona edizione dello Zecchino. Da allora, ho sempre cantato e, per la mia famiglia fu da subito chiaro che la musica sarebbe stata la mia scelta di vita. Immediatamente dopo, sull’onda della celebrità televisiva, partecipai a numerosi festival per bambini, portando a casa anche tanti premi. Questo fino all’età di dodici anni. Poi, chiesi ai miei genitori di regalarmi una chitarra per il mio compleanno. Con pochi accordi imparai le prime canzoni in siciliano. Erano canti semplici. Bastavano solo due accordi. Così è cominciato il grande amore per la musica etnica.
-Posso scrivere che sei l’ultima “cantastorie della Sicilia?
Non mi sento una cantastorie, anche se canto le storie della mia terra. Credo di vestire meglio i panni dell’artista e dell’interprete.
-Cosa ti hanno lasciato Rosa Balistreri, Ciccio Busacca e Ignazio Buttitta?
Sono stata fortunata. Posso dire di averli conosciuti, frequentati. Sono cresciuta artisticamente osservandoli, quando sul palcoscenico si esibivano nelle piazze della Sicilia.
Con Rosa abbiamo anche fatto insieme degli spettacoli teatrali, prodotti dal Teatro Biondo di Palermo. Era la Rosa che mi piaceva di più. Quella che diretta dal regista, riempiva la scena con il suo canto potente. Tutto il suo piccolo corpo cantava. Da lei ho imparato che si canta con tutto il corpo, non solo con la voce. Ogni sera, durante la sua esibizione, la spiavo dietro le quinte. Mi piace osservare i grandi artisti. Ammetto che Rosa Balistreri è stata il mio modello, all’inizio della mia attività. E’ normale. Poi, lentamente, ci si allontana dal modello e si cerca una nuova strada, lavorando sulla propria espressività e sulla voce.
-La critica ti considera l’erede spirituale di Rosa. Puoi raccontare un ricordo?
Desiderosa di inserire nel mio repertorio i canti del Venerdì Santo, la chiamai al telefono, chiedendole di farmi da maestra. Lei non si fece pregare e mi invitò a casa sua, a Palermo, in Via Santissima Mediatrice, dove viveva con la madre. Mi chiese di portare il registratore. Quel pomeriggio cantò solo per me. Le fui tanto grata. Rosa fu generosa, per nulla gelosa della sua musica. Da quelle registrazioni, qualche anno dopo, ne trassi uno spettacolo dal titolo “Misteri, canti e leggende della passione”, ma Rosa non c’era già più…
-Si sono appena concluse le riprese del film su Rosa Balistreri diretto da Paolo Licata…
So che c’è tanto interesse sul personaggio Rosa Balistreri. La sua vita è stata rocambolesca, ma nessun film potrà mai eguagliare la forza espressiva della sua discografia. Oggi, nell’era dell’immagine e della comunicazione, la musica sembra non bastare, bisogna rendere tutto spettacolare. Rosa è la voce di Rosa.
-Cosa resta del suo patrimonio?
Rosa è ancora l’idolo di molte cantanti di etnomusica. E’ un’icona, un faro. Bisogna dire, che Rosa è nata in un momento storico in cui l’attenzione per le istanze del popolo, per la cultura contadina era forte. Oggi, tutto è diverso. La società è molto cambiata. Il patrimonio di Rosa sarà sempre meno compreso dalle nuove generazioni, se non si creeranno proposte rivitalizzanti, seppur nel rispetto della tradizione e del sentimento popolare alla base di esso. Quello che facciamo io e Giuseppe Greco è trasferire la musica e i canti in una sfera atemporale. Solo così un canto di tradizione può ancora considerarsi vivo e contemporaneo.
-Sei una delle poche musiciste inserita nel Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia, una delle più importanti espressioni dell’identità siciliana. Come vivi tutto ciò?
E’ un grande onore, credo il più alto riconoscimento al quale un’artista possa aspirare. Vivo questa attribuzione con un forte senso di responsabilità. Lo considero anche un prestigioso biglietto da visita. Mi ha permesso di dialogare con realtà internazionali, ed essere invitata a festival importantissimi, come quello organizzato da M° Leo Brower, a l’Avana, incentrato sulla voce umana, in occasione del quale, insieme al chitarrista Giuseppe Greco, mi sono esibita nel teatro delle “BellasArtes”. Ammetto che essere considerata “Espressione” della nostra cultura siciliana mi riempie di vera gioia.
-Sei stata diretta da grandi registi italiani Calenda, Quartucci, i fratelli Taviani. Hai cantato soltanto o recitato?
Sono un’attrice. Cantare e recitare è, per me, quasi la stessa cosa. Sono un’interprete. Ho partecipato come attrice a molti spettacoli teatrali. I registi con cui ho lavorato spesso mi hanno fatto cantare in scena. Oggi, mi piace anche scrivere spettacoli dove recito e canto. In “Cialoma”, per esempio, sono di volta in volta Madonna, Sirena, ma anche uomo di mare, pescatore di tonni. Il teatro è la più grande magia che esista. Quando preparo un nuovo canto da inserire in repertorio, il mio approccio al testo somiglia a quello di un attore con il suo copione. Ogni parola ha un preciso significato, e vuole la sua intonazione. La voce è un potente mezzo espressivo. I suoi colori sono innumerevoli. Bisogna calibrare ogni sfumatura. C’è un grande lavoro di ricerca espressiva. Un lavoro che non ha mai fine. Credo che il teatro sia il luogo più congeniale alle mie performance. Permette di trasferire in una sfera atemporale i canti del passato. Essi, fuori dal contesto rurale in cui sono nati, assumono un carattere universale, una bellezza assoluta. Voglio interpretare una Sicilia che non sia quella della cartolina turistica, anche perché la nostra musica di tradizione non ha niente di bonario né tanto meno rassicurante. Niente a che vedere con le bucoliche immagini che inondano le riviste dei tour operator, l’immagine di una Sicilia che non esiste e che non è mai esistita.
-Sei stata in tour in vari paesi del mondo e anche a Los Angeles, a Casa Italia a Bevery Hills, a New York, Filadelfia, in Australia, in Canada, Sudafrica e Messico. Hai girato il mondo portando la Sicilia nel cuore…
Nel 1984 ho fatto il mio primo tour importante. In occasione delle Olimpiadi di Lo Angeles, mi sono esibita in rappresentanza della Sicilia, a Beverly Hills. E’ stata un’esperienza incredibile, e certamente indimenticabile. Ho cantato in tanti paesi del mondo, e certamente per un pubblico che, il più delle volte, non capiva una sola parola di quello che cantavo. La nostra musica è sempre apprezzata nel mondo. Ho visto tante volte gli occhi degli ascoltatori visibilmente commossi per la bellezza delle antiche melodie. Questi, dopo il concerto mi venivano a trovare in camerino per dirmi che, nonostante non avessero potuto comprendere le parole, credevano comunque di avere capito il significato della canzone. E’ incredibile ciò che riesce a fare la musica!
-Un ricordo della grande coreografa Pina Baush con la quale hai collaborato nell’allestimento di Palermo- Palermo…
Sapevo che Pina Baush fosse a Palermo, ma mai avrei immaginato che, in quel noioso pomeriggio casalingo, proprio lei avrebbe citofonato per accomodarsi, due minuti dopo, nel salotto di casa! Proprio lei, la grande Pina Baush! Aveva con sè un traduttore e un rappresentante del Teatro Biondo. Donna di grandissima sensibilità. Dovendo realizzare una coreografia su Palermo, voleva prima capire il senso di questa città, attraverso l’incontro con i suoi artisti. Cantai per lei anche di canti di mare e d’amore. Volle registrare in teatro alcune canzoni da utilizzare nello spettacolo. Seguii le prove con i danzatori con immenso piacere e curiosità. Osservava molto i suoi allievi e ballerini e li lasciava liberi di improvvisare. Prendeva molti appunti. Ne ho un vivido ricordo.
-I premi fanno crescere. Ne hai ricevuti molti ed uno internazionale: Il Castello d’argento: Ne vuoi parlare?
Ricevere un premio è sempre un evento estremamente gratificante. Quando si è giovani, è un incentivo, un incoraggiamento a perseverare; quando si è adulti, è un riconoscimento per ciò che hai fatto e per la qualità delle tue scelte. E’ una conferma del ruolo che hai in una determinata sfera, per me, quella dell’arte. In ogni caso, cantare non è per me solo un fatto estetico, o edonistico. Cantare la tradizione siciliana, oggi, assume un carattere anche ideologico, perché si pone in controtendenza, rispetto al globalismo che investe la musica, come ogni altro aspetto della vita contemporanea. Per ritornare alla domanda che mi hai fatto, il “Castello d’Argento” è stato un premio internazionale molto importante, perché ricevuto in occasione dell’”anno dei giovani” indetto dall’ONU. Ero agli inizi della mia attività professionale. Da allora ho ricevuto molti altri premi. L’ultimo è stato lo scorso anno. Il premio intitolato a “Topazia Alliata” , madre di Dacia Maraini. Mi è stato consegnato dalla stessa Dacia Maraini, grazie alla Consulta della Cultura delle donne di Casteldaccia.
-Il tuo lavoro ti ha portato lontano ai confini del mondo, a Samarcanda in Uzbekistan con le Melodie d’oriente sotto il patrocinio dell’Unesco. Parlami di questo spettacolo.
Ti ringrazio per questa domanda, che mi permette di parlare di un argomento che mi sta a cuore. Spesso sento dire che oggi la Sicilia deve diventare “internazionale”. Dietro questa affermazione si nasconde il forte senso di inadeguatezza insito in coloro che non sanno apprezzare la propria cultura e credono che sostenerla e promuoverla equivale ad una forma di provincialismo. Non c’è nulla di più sbagliato. A Samarcanda, in occasione del più grande Festival di etnomusica del mondo “Melodie d’oriente”, tra oltre 50 nazioni, rappresentate ciascuna da un gruppo di musica etnica, la Sicilia, in rappresentanza dell’Italia, ha portato a casa un prestigioso premio. Giuseppe Greco alla chitarra, Daniele Schimmenti alle percussioni ed io, nella Piazza Registan, voluta da Tamerlano, sulla Via della Seta, ci siamo confrontati, a suon di note, con le eccellenze musicali di paesi le cui tradizioni, come le nostre, sono millenarie. La commissione, composta da rappresentati culturali provenienti da tutto il mondo, ha attribuito al nostro omaggio ad Alberto Favara, alle rielaborazioni di Giuseppe Greco e alla mia voce il terzo posto e un premio speciale della giuria.
-In che cosa consiste il tuo omaggio al grande etnomusicologo Alberto Favara?
Conosciuto come “Corpus di melodie popolari” la raccolta di Alberto Favara , pubblicata postuma del genero Tibì, è la più grande raccolta di canti popolari d’Europa. Oltre milleduecento canti, se consideriamo anche le varianti alle stesse melodie. Da sempre è considerata una fonte inesauribile, e anche io, come Rosa Balistreri e molti altri, ho attinto a questa fonte. Sono trascrizioni della linea melodica direttamente carpita dalla voce del popolo, in un tempo in cui la tecnologia non era ancora disponibile. La mia rilettura di questi canti ha tenuto certamente conto della centralità della voce umana, indiscussa protagonista della musica di tradizione. L’aspetto che riguarda la tessitura musicale è stato curato da Giuseppe Greco, con cui collaboro da molti anni. Che sia espressa con la chitarra sola, o con un ensemble cameristico, o addirittura sinfonico, questa deve tenere conto della centralità del canto. Nell’esposizione con la chitarra, mi piace dialogare con lo strumento, creare suggestioni. Quando canto sul ritmo dei tamburi, il canto si fa irruento o rarefatto, con l’orchestra, più lirico. Al di là dell’aspetto filologico, anch’esso molto importante, mi piace evocare, emozionare… Questa rilettura del “Corpus” è diventata un’opera discografica dal titolo “La vuci mia”. Dove la parola “vuci” non sta esclusivamente ad indicare il mio canto, ma anche la voce del popolo Siciliano.
-Le cialome, i canti del mare e dei pescatori è sempre più raro ascoltare queste canzoni struggenti…
Sono amante del mare e conosco le tecniche della pesca perché pescatrice io stessa. I canti del mare sono canti prettamente maschili, ma io amo inserirli in repertorio. Sono così diversi da tutti gli altri della campagna, o dei carrettieri! Sono melodie antichissime e le esecuzioni di tipo corale. Ormai è estremamente raro ascoltarle, perché sono canti di lavoro strettamente connessi all’attività della pesca. Cambiando le tecniche e modernizzandole, non servono più a scandirne i momenti salienti. Che peccato! Questo accade sempre con i canti che servono ad alleggerire la fatica fisica e con quelli che raccontano le fasi di un’attività lavorativa oggi trasformata, o addirittura scomparsa.
-Sicilia terra di carcere e di vicaria, canti di dannati. Fanno parte del tuo repertorio?
Certamente. Anzi, sono i primi canti che ho imparato a suonare con la mia chitarra. Ho scoperto la voce di Rosa Balistreri grazie all’LP “Noi siamo nell’inferno carcerati” edito da Fonit Cetra, in cui erano raccolti esclusivamente canti della Vicaria. Me ne innamorai immediatamente. Sono davvero struggenti, raccontano le emozioni che provano coloro che perdono la libertà: rabbia, disperazione, sdegno, malinconia, vendetta… Ma al di là dei testi, bellissimi e sintetici, come solo la poesia popolare sa essere, mi innamorai delle linee melodiche, di quei modali che Alberto Favara ricondusse all’antica musica greca, al modo “dorico”, in particolare. Ho iniziato così, cantando questi meravigliosi frammenti nelle piazze della Sicilia, con la mia chitarra. E’ stato il mio primo repertorio.
-Hai musicato e cantato 10 poesia di Ignazio Buttitta, qual è il testo che ami di più?
Molti anni fa, Ignazio Buttitta mi chiese di musicare le sue poesie d’amore. Glielo promisi, ma non fui in grado di farlo. Ero molto giovane e con i miei pochi accordi di chitarra non credevo di essere in grado di farlo. Qualche anno fa, la Fondazione Buttitta mi chiese di partecipare alla realizzazione di un CD dedicato al poeta. Fu allora che mi ricordai della promessa e, questa volta, di getto, musicai dieci canzoni, cominciando da “U mortu ca chianci”. Sono tutte belle. Raccontano l’amore, gli amanti e “i fimmini”. Mi diverte molto cantare “L’occhi di l’omu”. E’ una canzone in cui Buttitta racconta di come, agli occhi degli uomini, le donne sono sempre nude, anche quando le vedono passare ben vestite.
-Li fimmini sono contradditorie, regine, sognatrici, amanti, ribelli e puttane. E l’omini come sono?
Nella canzone di Buttitta sono sempre padroni e porci, sempre desiderosi di carnalità. Nelle canzoni di matrice popolare, gli uomini sono invece descritti come eroi. Anche quando sono figure negative, come i carcerati e gli assassini, essi sono sempre figure romantiche: amanti impareggiabili, instancabili lavoratori, capaci di sopportare infinite sofferenze… Anche nell’arroganza, o nella rabbia, cioè sentimenti violenti, essi sono descritti come degli Dei. Le loro ragioni sono sempre assolute. Certamente questo disegna una cultura molto maschilista, che relega la donna esclusivamente in una sfera amorosa e casalinga… Non è certo un caso che l’interesse per la musica popolare sia nato nell’800, con il romanticismo e, in Italia, con il Risorgimento. Certamente le istanze del popolo incarnarono un certo bisogno di riscoprire i valori vicini a quel modo di vedere il mondo, in quel particolare momento storico.
-Ho scoperto che vivi in un palazzo come una principessa? Qual è la storia di questa dimora trasformata in un teatro d’avanguardia?
Come una principessa?Direi, piuttosto, come un’abbadessa, da momento che il mio palazzo è il primo piano del Monastero di Santa Caterina, sul Cassaro. La storia di questo luogo è straordinaria. Una storia ricca di eventi, dispute, passioni, battaglie e colpi di scena! Sì, perché dopo essere stato convento, albergo, ristorante, è diventato una casa-teatro, realizzando, così, un grande sogno mio e di Giuseppe Greco, cioè quello di creare un luogo nel cuore di Palermo, dove creare valori, confronto, incontri, produzioni artistiche…. La realizzazione di questo sogno è la Sala Faust, chiamata così in memoria del mio nonno Fausto. Faust, il personaggio dell’opera di Goethe,che incarna anche il nostro spirito di ricerca, è un nome dalla forte valenza simbolica.
-Ti senti più cantante o più attrice?
Mi sento principalmente un’interprete. Sì, certo, sono una cantante e un’attrice, ma anche la mia storia, seppur breve, di danzatrice mi è stata preziosa per costruire l’artista che sono diventata oggi.
-Da chi hai appreso l’arte del canto?
E’ una dote naturale, che però ho coltivato sin da piccola. Mia madre cantava da ragazza, è per questo che ha riconosciuto immediatamente la mia inclinazione, spiccatissima già all’età di tre anni. Non ho avuto un insegnamento “canonico”. Sono autodidatta, e ho sempre accettato ogni sfida mi sia stata offerta, giacchè la voce è un meraviglioso strumento il cui potenziale non sarà mai completamente esplorato.
-E’ tua l’idea del Balcoscenico e da quanto tempo proponi spettacoli d’Autore nel tuo Balcoscenico?
L’idea del Balcoscenico è nata qualche anno fa, quando era impossibile frequentare i teatri, e le persone dovevano distanziarsi, anche se all’aperto. Io e Giuseppe Greco, allora, abbiamo pensato di ideare un modo nuovo per dialogare con la città. Così è nato il “Balcoscenico”, una parola detta ironicamente da un nostro caro amico, che è diventata il titolo della prima edizione. Oggi il “Balcoscenico”è una bellissima realtà.
-Canti affacciata alla finestra e certe volte canti all’interno del tuo palazzo…
Normalmente canto in teatro, ma questo non mi impedisce di offrire il mio repertorio alla città dai balconi del Monastero. All’interno,invece, nella nostra Sala Faust, accadono molti eventi artistici e culturali, durante tutto l’anno. Per un pubblico ristretto, per coloro che, come noi, pensano sia di fondamentale importanza coltivare la bellezza, l’arte, la creatività, ma anche il confronto, il dialogo e la condivisione.
-La tua voce parte da lontano e arriva in ogni angolo del mondo…
La musica non ha confini. La nostra musica siciliana è meravigliosa, unica. Non c’è niente che le somigli. E la mia voce, il mio canto, riesce ad emozionare. Cosa c’è di più bello?Ho visto persone commuoversi fino alle lacrime per un canto di cui non comprendevano neanche una parola. E’ qualcosa di misterioso e di magico.
Come sarà questo festino dopo 400 anni?
Sarà qualcosa che continueremo a chiamare Festino, ma che, già ora, ha perso ogni sua caratteristica, spirito, peculiarità, identità. Sarà il festino della gente, non del popolo.
-Come reagisce il pubblico straniero ai tuoi spettacoli?
Rimane molto commosso. Ma è il pubblico siciliano che mi sta più a cuore. Durante i nostri concerti, si immerge come in viaggio a ritroso. Riscopre qualcosa che era profondamente nascosto nella memoria. In tanti, dopo il concerto, vengono a ringraziarci. La nostra musica ha forti caratteri ideologici, per noi è anche una missione.
-Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In settembre, con Giuseppe Greco, Salvatore Nocera e Daniela Gesell presenteremo alla Kulturhaus di Francoforte l’opera “Fantasima”, un omaggio alla poetica di Giuseppe Giovanni Battaglia, con l’apporto cinematografico di Rosario Neri. Prima della performance, io e Giuseppe eseguiremo il nostro recital “La vuci mia”, un omaggio ad Alberto Favara e ad altri musicologi che tra l’800 e il ‘900 hanno raccolto e tramandato il nostro meraviglioso patrimonio musicale, rendendolo fruibile ancora oggi.
Un ringraziamento a Rosario Neri per le foto e per le riprese.