Al Quid di vicolo luna di Favara, l’architetto Lillo Giglia mi ha presentato Maurizio Carta che avevo già incontrato allo Steri insieme al magnifico rettore Roberto La Galla. Chi si interessa di architettura conosce la famiglia di Maurizio Carta, il papà Giuseppe è stato professore Ordinario di urbanistica della facoltà di architettura dell’Università di Palermo, una famiglia di grandi architetti che ha dato lustro al nostro Paese. Un’altra volta l’ho incontrato a Palermo al Capo durante la presentazione di un murale dei pittori di Calapanama dedicato agli attori palermitani Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Non ho mai avuto il tempo per manifestare la mia gratitudine per il suo lavoro, gli architetti corrono sempre, non hanno mai tempo, nemmeno per la loro famiglia. La sola maniera per parlare con Maurizio è solo una, quella di alzarmi all’alba durante le sue passeggiate mattutine palermitane. L’ho rivisto con gioia alla presentazione del suo libro Romanzo Urbanistico a una Marina di libri in compagnia di Laura Anello e del sindaco Roberto La Galla. Durante la presentazione sono rimasto incantato e ho deciso di intervistarlo. Romanzo urbanistico è una sorta di giro del mondo che svela i linguaggi della cucina e del cibo diventando semiotica del gusto. Dalle piante selvatiche di Stoccolma ai barbecue di New York, dai wok bollenti di Pechino alle pite del Cairo, fino alle brasserie di Lione e i cocktail di Mosca. E’ un saggio acuto sulla rigenerazione urbana, una guida per viaggiatori attenti e curiosi, un romanzo «urbanistico» per capire le città del mondo e immaginare futuri possibili. E’ un grande libro di indizi e suggestioni dove il lettore è coinvolto dalla prima, fino all’ultima pagina del libro.
Dai 4 angoli del mondo Maurizio Carta urbanista, docente universitario, attuale assessore comunale alla pianificazione urbana racconta e raccoglie le sfide del cambiamento climatico e della transizione green di 42 città. Ecco un passaggio molto significativo del libro: “Le città vanno assaggiate, morse, succhiate, bevute, deglutite, e bisogna farlo circondati dall’umanità che condivide il rito quotidiano del cibo, nella sua ampia diversità. Come ricorda Marc Augè, bar ristoranti, bistrot, food truck e bancarelle sono luoghi straripanti di vita e di emozioni, in cui si scambiano parole gesti, occhiate: sono spazio relazionale ma anche letterario. I luoghi del cibo sono protagonisti del paesaggio urbano che rivendicano di possedere una propria storia, una geografia e anche una urbanistica”. Riflettendoci un pò questo non è solo un libro, ma è soprattutto un viaggio attraverso le pagine di un testo che permette al lettore colto di visitare 42 città del mondo, New York, New Orleans, Detroit, Boston, Chicago, Nashville, Paducah, Pechino, Hangzhou, il Cairo, Parigi, Marsiglia, Nantes, Lione, Brest, Bordeaux, Casablanca, Marrakech, Mosca, Londra, Liverpool, Portsmouth, Newcastle e Gateshead, Berlino, Amburgo, Hannover, Porto Allegre, San Paolo, Amsterdam, Rotterdam, Stoccolma, Copenaghen, Aalborg, Barcellona, Bilbao, Valencia, Siviglia, Lisbona, Tirana, Sekondi-Takoradi, Dubai, Favara. Mi ha stupito e commosso il fatto che Maurizio Carta abbia inserito Favara a conclusione, tra le grandi città del mondo. A tal proposito mi è venuta in mente una notizia che ho conosciuto attraverso un’intervista a Maria Grazia Ambrosini.
“E’ una curiosità che pochi conoscono. Un giorno per motivi istituzionali Gaspare Ambrosini favarese illustre, Presidente della Corte Costituzionale, si trovò a Londra per una conferenza, ebbene il noto giornale Time gli dedicò una copertina e scrisse che Gaspare Ambrosini era Professore all’Università di Favara. Quando lui vide il giornale ebbe un momento di gioia e di orgoglio… Poi sorrise. Amava molto il suo paese. Anche Maurizio Carta ama molto Favara ed è stato generoso. Ha raccontato l’esperienza della Farm, il grande lavoro che hanno svolto Andrea e Florinda Bartoli insieme alle figlie e a tutti i collaboratori, facendo di questo luogo una grande attrazione turistica per gli appassionati di architettura e non solo. Ma Favara definita dallo scrittore Salvatore Ferlita la culla dei paradossi, non è solo questo: è il Paese del Cinema, sono stati girati ben 4 film: Il cammino della speranza di Pietro Germi 1950, I nuovi angeli di Ugo Gregoretti 1961, Il giudice ragazzino di Alessandro di Robilant del 1994, Prigioniero di un sogno di Carlo Fusco del 2010. Fra i quattro film spicca Il cammino della speranza di Pietro Germi. E’ il paese dell’abusivismo, dei carusi morti in miniera, del barone Antonio Mendola, dello scrittore Antonio Russello, del sindaco Gaetano Guarino assassinato nel centro di Favara, di Calogero Marrone che lavorava al comune di Varese, che ha salvato molte vite dai campi di concentramento tedeschi falsificando le carte d’identità, fino a quando non è stato scoperto ed è finito anche lui in un campo di concentramento a Dachau in Germania, è il paese dell’agnello pasquale, della casa editrice Medinova di Antonio Liotta, della musica popolare, il Gruppo Popolare Favarese è nato in via Zanella dallo scrivente e da Antonio Zarcone, insieme ad Antonio Lentini, Mimmo Pontillo, Peppe Calabrese, ed è conosciuto in tutto il mondo per le sue canzoni legate alla storia di questa città laboratorio. A Favara tutti hanno cantato e continuano a cantare Tolì Tolì in ogni parte della Sicilia e dove ci sono siciliani che lavorano fuori dalla nostra terra. Il libro di Maurizio Carta pubblicato dall’editore Sellerio è unico nel suo genere e non finisce di stupire. A Maurizio pongo qualche domanda per conoscere e approfondire il suo testo che fa riflettere, viaggiare e crescere culturalmente. Da maestro lo proporrei l’adozione in tutte le scuole italiane dalla quinta elementare in poi. Ma andiamo a conoscere da vicino Maurizio Carta una vera forza della natura.
-Quanto tempo c’è voluto per scrivere “Romanzo urbanistico” che racconta 42 storie di città del mondo e a chi si rivolge?
Il libro è pensato per tutte le lettrici e i lettori che abbiano amore per questo straordinario organismo popolato da umani e da non umani che chiamiamo città. Che abbiano la curiosità di seguire i miei viaggi per le città del mondo a caccia di indizi sulle loro identità ed evoluzioni per poi completarne la scoperta con la loro sensibilità, viaggiando a loro volta seguendo le mie tracce ma anche perdendosi in nuovi itinerari e scoprendo diverse esperienze. Un libro che permette anche di ascoltare la musica delle città, attraverso una playlist di 122 canzoni che ho ascoltato mentre le percorrevo o che me ne hanno spiegato alcune emozioni che gli altri sensi non riuscivano a spiegare. Qui il link alla playlist su Spotify: https://open.spotify.com/playlist/21VtbtCf09tNbETMGXEfwy?si=dIpUR71AQ3OU23MTdj1ZDg&pi=e-l6IabUYESZ-S&pt=3d2989c97085c9d7bfaa46847914f46a
L’ideazione e la scrittura del libro sono il frutto della sincronia di due tempi: quello della fatica di lungo termine e quello della sveltezza. Il tempo di Vulcano e il tempo di Mercurio, li chiamava Calvino nelle sue Lezioni Americane, spiegando che la scrittura agisce con un messaggio d’immediatezza ottenuto attraverso aggiustamenti pazienti e meticolosi delle idee. Ogni racconto di città, quindi, è il frutto di un’intuizione istantanea sorta durante un viaggio che, appena formulata, assume l’assertività di ciò che non poteva non essere. Il libro, però, è anche il frutto di un tempo di riflessione che scorre lasciando che le intuizioni, le sensazioni e i pensieri scaturiti nei viaggi si sedimentino, maturino, distaccandosi da ogni urgenza di trascrizione e da ogni evanescente contingenza di condivisione. Questo è un libro pensato nella mia mente per molti anni e che alla fine – complice una potente ispirazione – è sgorgato in un istante trasferendosi nella scrittura. Il frutto di una intuizione a lungo coltivata come il granchio dell’aneddoto narrato da Calvino: «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni, il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto».
-Quali sono le città più felici del mondo?
«Le città felici si assomigliano tutte fra loro; ogni città infelice, invece, è infelice a suo modo» così inizia il mio Romanzo urbanistico, parafrasando il famoso incipit scritto da Lev Tolstoj in Anna Karenina. I luoghi dinamici, creativi e vibranti delle città, infatti, si somigliano sempre più tra di loro, tendendo a emularsi a vicenda, imparando l’uno dall’altra, troppo spesso copiando senza spirito critico. Le città – o le loro parti – più complesse, talvolta fragili periferie che hanno compiuto una transizione spesso dolorosa verso la felicità, invece, lo sono ognuna a modo suo, perché danno peculiare forma e voce ai diversi sogni, bisogni e desideri delle comunità che le abitano. Per conoscerle e comprenderle pretendono, quindi, una relazione intima che aiuti la diagnosi accurata dei problemi, una lettura critica delle soluzioni che hanno trovato per risolverli e una guida per viverne l’anima profonda. Per ripercorrere le strade che hanno intrapreso per uscire dalle crisi e per imparare da esse le azioni che possono essere utilizzate da altre città ancora infelici, un urbanista deve entrare dentro le loro storie – anche quelle minori – esercitare spirito critico, studiarle con adeguatezza e rispetto delle diverse vite per adattarne le lezioni con accuratezza sartoriale, senza la facile panacea di confidare in soluzioni universali. In questo libro racconto dell’oscillazione tra felicità e infelicità delle città del mondo che ho visitato, narro storie di successo, per capirne genesi e percorso, estraggo indizi utili a imparare, e racconto anche le ombre che caratterizzano alcune, perché per vedere meglio serve il contrasto.
-Quali sono le città felici della Sicilia?
Ancora troppo poche e non pienamente. Favara è una di quelle che dal 2010 con Farm Cultural Park sta percorrendo il viaggio dell’eroe verso un nuovo modello di sviluppo basato sulla creatività e sull’inclusione sociale. Palermo sta emergendo lentamente da una decennale situazione disastrosa dove crisi economica, egoismo, incuria e superficialità amministrativa hanno generato una sindemia grave di diversi fattori. Molte altre città hanno intrapreso il viaggio che sarà lungo e periglioso. Ma va fatto e soprattutto va iniziato prima possibile.
-Chi sono i responsabili del declino delle città?
Come in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie non è mai solo uno il responsabile dell’omicidio del bello e del bene di una città, ma c’è sempre un perverso concorso di colpa tra amministratori incapaci e società civile sonnolenta, imprenditori rapaci e professionisti avidi. Un circolo vizioso di interessi che amplifica gli egoismi e che fa pensare che lo sviluppo delle città sia la somma dei singoli interessi, senza mai agire per l’interesse collettivo che invece sintetizza le domande e, soprattutto, tiene conto anche degli interessi di un altro soggetto che non viene quasi mai ascoltato: la città! Perché anche le città hanno sogni e bisogni, sensibilità e diritti, a cui ho dato voce attraverso il libro.
-Gli architetti e le periferie fragili delle città. Quali responsabilità hanno gli architetti e gli urbanisti che hanno progettato lo Zen e le banlieu parigine per esempio?
Troppo spesso gli architetti hanno agito sulle periferie – anche in buona fede – cercando di mitigare il difetto della periferizzazione, di manutentare il modello di città monometrica con mille periferie invece di scardinarlo, abolendo il concetto stesso di periferia per perseguire il modello di una città policentrica fatta di quartieri più autosufficienti e adeguatamente diverso l’uno dall’altro per essere attrattivi e vivacizzati dai flussi di persone da altri quartieri.
Reimmaginare le periferie significa non solo guardarle con occhi nuovi e progettarle con rinnovati strumenti, ma vuol dire anche ridefinirle epistemologicamente fin dal lessico. Non più «luoghi circostanti» rispetto a una città centrale in cui sono concentrati tutti i valori, un intorno privo di identità, ma luoghi in sé, nuovi centri. Propongo, quindi, con tutta la carica dirompente ed eretica del termine, di chiamarle «poliferie» combinazionedi pòli (molteplice) e phérein (portare), cioè luoghi plurali capaci di generare la nuova città policentrica. Ma le poliferie designano anche la combinazione di pólis (città) e phérein, cioè luoghi intensi capaci di generare nuove forme di città creative, intelligenti e giuste. Ripensare e rinominare le periferie come poliferie, quindi, le propone come luoghi da esplorare per trovarvi un diverso presente, le sottopone all’impegno di metterne in valore le opportunità inespresse, per generare l’inatteso, le predispone alla riattivazione del loro metabolismo nel processo di sviluppo metropolitano. Soprattutto, ci spinge a rifiutare la consolatoria, ma poco soddisfacente, abitudine di proiettare nel futuro l’esperienza passata (le periferie come perdita della forma e identità urbana), perché questo ci impedirebbe di cogliere la straordinaria opportunità di trovare un «cigno nero», cioè un evento imprevisto che ricodifica la nostra percezione del mondo e quindi rimodella il nostro pensiero. Le poliferie, riformando innanzitutto il nostro lessico, rimodellano il nostro pensiero: ci spingono ad agire sulla città nel suo complesso, nella sua socio-diversità e nella sua multi-spazialità. Ci chiedono azioni cognitive, educative e sperimentali che coinvolgano le comunità a ripensare i loro spazi di vita e che riportino cicli di vita nelle aree che avevamo pensato come marginali e che oggi ci impongono di ripensarle come nuovi centri delle città che ritornano policentriche e interconnesse da flussi molteplici.
-Alcuni paesi della Sicilia richiamano i turisti con lo slogan: “Cento case a un euro” e poi che succede?
Di solito nulla di stabile, solo molto buon marketing urbano che però spesso ha solo un effetto placebo sulla rivitalizzazione dei piccoli centri dell’entroterra. Non è di per sé una politica sbagliata, ma va accompagnata da strategie più corpose, da azioni che non possono essere solo il frutto di decisioni locali ma devono far parte di un progetto più ampio, di livello almeno regionale. A noi manca una visione di sistema, una strategia nazionale o regionale che definisca il ruolo di ogni città. Anche sulle città metropolitane abbiamo mancato l’appuntamento con la storia con una legge che le rende irrilevanti o, peggio, pleonastiche.
-Nel Romanzo sulle città del mondo ho appreso informazioni e curiosità geniali da approfondire, strade conviviali senza automobili, mobilità lenta, città laboratori viventi, innovazione urbana, mi riferisco a Parigi, ho letto di città della musica, come New Orleans e Nashville, di città ecologiche e creative, di città frattali, esagerate. Detroit una città che bruciava di rabbia, di Boston città dal volto umano, delle 7 grandi università più importanti del mondo Cambridge, Haward, di Chicago la città del vento, di walks city, di New York che non dorme mai, di Mosca con i suoi secret bar, di Marrakech dove non arriva mai l’alba, di Casablanca è descritta come una donna in cui perdersi. Bellissime descrizioni: “Di notte si percepiscono meglio gli odori, i vapori gli umori vibranti del corpo della città”. Per la prima volta ho sentito il termine urbicidio, anche le città sono vittime innocenti, di una nuova urbanistica della salute, delle guerre e tante altre citazioni colte legate a scrittori, architetti e a libri introvabili, un vero pozzo di San Patrizio.
Le città che Carta racconta in alcuni momenti della loro storia erano peggio di Palermo. Penso a Detroit, a Marsiglia, a Liverpool o a Favara stessa. Le città che racconta hanno tutte percorso, un viaggio di rinascita, di evoluzione, di fuga dall’eterno presente per raggiungere un nuovo futuro che è oggi il loro presente. Le ha immaginato compiere, come i personaggi di un romanzo di formazione, il cosiddetto “viaggio dell’eroe”, la ben nota struttura narrativa teorizzata da Christopher Vogler nel saggio omonimo del 2007 (attingendo agli studi di Claude Lévi-Strauss degli anni Cinquanta sulla narrazione mitica), in cui definisce un canone narrativo rintracciabile in gran parte delle storie epiche, dalla mitologia greca, passando per Shakespeare fino a giungere alle saghe dei libri, film e fumetti contemporanei. Anche le città del libro – i suoi veri personaggi – compiono questo viaggio, articolato in alcune tappe che, con diversi dettagli e declinazioni, tutte hanno percorso.
-Dal tuo libro che è una miniera di informazioni ho scoperto che a Parigi città nella quale ho vissuto tre anni e che mi ha salvato, ci sono 40 multinazionali e che questa città si sta preparando al futuro con delle scelte ecologiche ed ambientali veramente affascinanti e uniche al mondo…
Nella perenne gara contro Londra, la capitale francese sta ripensando il suo futuro con un vero e proprio programma anti-ciclico: progettando e realizzando interi nuovi quartieri con parchi, uffici, abitazioni, scuole e negozi, con una intensa e creativa diversità sociale e connessi da una rete di mobilità sostenibile intra-urbana ed extra-urbana, sia per i suoi attuali 2,2 milioni di abitanti stabili sia per tutti quelli temporanei o intermittenti che già attrae e che ambisce ad attrarre ulteriormente. La rinomata grandeur viene rivitalizzata dalle nuove sfide della sostenibilità energetica dei quartieri, ma anche da quelle offerte dal ruolo propulsivo della città come motore del mutamento e incubatore diffuso per le nuove imprese. Alla tradizionale valorizzazione del patrimonio culturale e al miglioramento dell’esperienza della fruizione dei musei – in cui Parigi ha sempre fatto scuola – si affianca la rigenerazione delle grandi aree dismesse insieme alla realizzazione di quartieri pilota per le nuove tecnologie digitali e la green economy, e il miglioramento dei servizi educativi, sociali e di cura alle persone e l’incentivazione delle startup.
A Parigi la transizione ecologica è una cosa seria, resa concreta dall’adozione, già dal 2007, del Plan Climat il cui obiettivo è ridurre del 75% entro il 2050 i consumi di energia e le emissioni di gas serra. Inoltre, già dal 2020 un quarto delle risorse derivano da fonti rinnovabili, e ogni anno 100 scuole e 4.500 edifici vengono riconvertiti all’efficienza energetica.
-Perché hai definito Pechino, una città di 21 milioni di abitanti, la città proibita?
In effetti l’ho definita una “città calligrafica”, perché come la scrittura cinese è fatta di numerosi piccoli segni urbanistici che compongono più grandi significati e lo percepisci proprio partendo dalla visita alla Città Proibita, imprescindibile per capire la genesi urbanistica di Pechino, il suo principio generativo di tutto. La Città Proibita, infatti, mi restituisce una sensazione sull’urbanistica pechinese che verrà confermata dagli approfondimenti successivi: Pechino città calligrafica si sviluppa con un movimento di aggregazione di parti che, pur nella apparente casualità del gesto, restituiscono un significato composto. Il palazzo imperiale è così, da dentro sembra un labirinto, ma tutto è un insieme mirabile. A partire da questo impianto urbano, si compone per aggregazioni, per fraseggi, tutta la città. Sembra una città caotica, ma forse è solo perché non conosciamo l’ortografia e ancor meno la complessa fonetica che declina lo spazio urbano cinese in mille sfumature.
Anche la maglia urbana degli hutong è utile per capire l’urbanistica pechinese: un centro quadrangolare attorno a cui vengono centrifugate diverse geometrie apparentemente caotiche ma che comunque seguono un principio di connessione e di reticolarizzazione a partire da quel fuoco. In sintesi, un hutong è un bricolage, non ha un programma predefinito ma compone, scompone e ricompone modi di abitare, utilizzando diversi ingredienti edilizi, convalidando ancora una volta il principio urbanistico calligrafico della città, una scrittura minuta e accuratamente composta di segni ascendenti e discendenti, di addensamenti e di pause.
-E’ vero che al Cairo sopravvivono due città, quella dei vivi e quella dei morti?
Uno dei frammenti di Cairo che racconto è la Città dei Morti (Al-Qarāfa), l’antico cimitero mamelucco che a partire dal XIII secolo è diventato un’altra forma urbana in questa iper-città che è il Cairo. Anche questa è un’esperienza che va vissuta con senso critico, con spirito curioso e con approccio aperto. Durante la visita le domande più ricorrenti sono: quando ha smesso di essere un cimitero per diventare l’abitazione delle persone emarginate? Come è avvenuta la sostituzione, perché non è più un cimitero? Dopo un pò ci si rende conto che queste domande non hanno alcun senso, perché non stiamo attraversando un cimitero dismesso e trasformato in quartiere, ma siamo in una città in cui le salme stanno in una parte della casa per omaggiare la memoria dei propri cari in una promiscuità tra vita terrena e vita nell’aldilà che fa pensare a quanto sia sottile il margine tra le due, un respiro. Attraversando la città dei morti trovandola vivissima, ho pensato alla città dei vivi, anzi dei super-vivi: alla New Cairo o alla New Capital, o ai compound della segregazione e della paura dell’altro che racconto nel libro. La vitalità della città dei morti stride con la mortalità dei sogni luccicanti e alle promesse di una vita scintillante senza anticipo e pagabile in 10 o 20 anni (come recitano i cartelloni pubblicitari), ai “titoli spazzatura” che spesso hanno fatto le fortune dei finanziatori di quelle città e rovinato risparmiatori. Al Cairo coesistono la città dei morti brulicante di umanità e la città dei vivi sofferente di paure. E non sempre si trovano dove dovrebbero.
-Come vedi la città del futuro nel nuovo mondo urbano?
Per garantire la nuova vita più ecologica ed efficacemente digitale, plurale e flessibile, basata sulla conoscenza e sulla creatività e, soprattutto, più equa e capace di prendersi cura degli umani e dei non-umani dobbiamo cambiare radicalmente le nostre città. Per questo nel 2017 ho coniato il termine “città aumentata” (augmented city) per definire il necessario salto di paradigma urbanistico. La città aumentata è una città che potenzia sensi, diritti, servizi, bellezza e opportunità delle comunità che la abitano. La città aumentata amplifica e rafforza le qualità e le capacità di rispondere alle esigenze dei suoi abitanti (non solo umani), proponendosi come un dispositivo spaziale (perché la città è innanzitutto uno spazio che noi plasmiamo per viverci) in grado di agire contemporaneamente nelle dimensioni culturale, sociale, economica ed ecologica per migliorare la nostra vita, individuale e collettiva, informale e istituzionale, amplificando lo spazio urbano generato dagli effetti dell’innovazione. Viviamo e agiamo in una realtà permanentemente aumentata da dispositivi tecnologici e digitali, e le nostre città devono saper cogliere questo incremento cognitivo e diventare più sensibili e reattive ai nostri cambiamenti comportamentali. La tecnologia può aprire le porte a una realtà che diventa diffusa, non gerarchica e senza centri, aperta a tutti e, quindi, anti-sacerdotale, anti-elitaria, anti-ripetitiva perchè sempre hackerabile dal singolo che è il nodo di una rete di interazioni. La città aumentata è, per me, un paradigma emergente che percepisce le esigenze di una società più connessa su basi culturali e non meramente mercatiste e basata sulla conoscenza, capace di rispondere al cambiamento globale, soprattutto a quello climatico, e alle esigenze del nuovo metabolismo circolare degli insediamenti urbani per la loro sostenibilità. La città aumentata è l’habitat ideale per l’umanità urbana che voglia vivere responsabilmente la sua caratteristica di “olobionte”, una specie vivente che convive con altre specie viventi, e forse anche con le nuove specie digitali, con le intelligenze artificiali, con gli abitanti dell’infosfera e del metaverso. La città aumentata è, quindi, uno spazio composito e adattabile per migliorare la vita delle persone, è una piattaforma abilitante per la creatività umana, l’innovazione e l’uguaglianza e per la sostenibilità ecologica, per uno sviluppo economico equo e per una qualità del territorio che rafforzi anche la sua sicurezza.
-Sono rimasto affascinato dal concetto di sorellanza tra città, società e natura. Puoi spiegare meglio questo concetto?
Le città, quando non sono irrigidite dalla nostra arroganza artificiale, si comportano come una «seconda natura», come la definiva David Harvey, ma «non tanto le zone ben organizzate, patinate e scorrevoli, ma piuttosto la trama sudicia, organica della città, che si rivela negli angoli dimenticati dove il logoro tessuto culturale è del tutto consumato – il ventre urbano in cui l’artificiale e il naturale si incontrano e danno vita a una relazione ecologica» Così scriveva Menno Schilthuizen, biologo evoluzionista olandese, il quale suggerì per primo alcuni consigli pratici per rinnovare la sorellanza tra città e natura: il primo è «lascia che cresca», perché sarebbe molto meglio lasciare che gli spazi verdi si assemblino in un modo naturale a partire da specie già abbondantemente presenti altrove in città; il secondo è «non necessariamente native», perché molte delle specie che si sono evolute e adattate con più successo nell’ambiente urbano non sono native, ma esito di una fertile colonizzazione botanica; il terzo consiglio è «parcelle incontaminate» perché quel che già esisteva in loco, va protetto e la biodiversità, anche quella antica, va amplificata al massimo; infine, l’ultimo consiglio è «splendido isolamento», perché occorre rimandare alcune connessioni non necessarie e chiudere qualche corridoio ecologico di troppo, al fine di mantenere tutte le diversità.
Il diritto alla vegetazione urbana deve entrare in maniera strutturale nei diritti alla città, anche come diritto alla salute delle persone. Per tutelarlo e garantirlo dovremmo estendere il più possibile la presenza della vegetazione urbana come progetto di città, applicando, per esempio, il modello «3, 30, 300» elaborato dalla Università di Vancouver: 3 alberi visibili da ogni abitazione, 30% di copertura arborea su scala cittadina, 300 metri dal parco più vicino. Un progetto di città basato su un uso consapevole di soluzioni basate sulla natura che producono nuove forme di spazio urbano.
Non è più il tempo di manutenzioni e piccoli adattamenti, ma è venuta l’ora di un nuovo canone che consenta il salto dalla città rigida del Novecento, artificiale, espansiva, regolativa e gerarchica, alla città aumentata, ecologica, evoluzionista e flessibile, del XXI secolo: dalla città predatoria dell’Antropocene, alla città generativa del Neoantropocene, la città della prossimità aumentata, della sorellanza tra le specie, della giustizia spaziale e sociale, della salute pubblica come progetto evolutivo dello spazio urbano e non solo forma, norma, presidio o controllo.
Sono città capaci di adattarsi non solo alle mutazioni ambientali, sociali ed economiche in atto, ma anche, forse soprattutto, alle prossime mutazioni, sempre più veloci, radicali, critiche. Per questa necessità di adattamento potenziale, per saper rispondere a esigenze non ancora manifestate, esse necessitano di strumenti progettuali e di gestione urbana molto flessibili, capaci di fornire risposte tempestive e creative e non puramente regolative e conformative. Talvolta, nei processi di rigenerazione urbana, quando interveniamo in aree urbane in declino che necessitano di essere riattivate, rese più sicure, più belle e nuovamente abitate, sarà importante realizzare edifici, spazi, attività e servizi ecosistemici pensati per la prossima evoluzione, per l’ambiente che verrà, perché possiamo essere certi che viviamo entro metamorfosi (climatiche, sociali, economiche, politiche, sanitarie) sempre più accelerate e dirompenti. Oggi dobbiamo saperci assumere la responsabilità di progettare e trasformare le città della prossima specie urbana.
-Parli di grammatica urbana, della maniera di ascoltare la città. Mi ha colpito molto la frase, che per me è poesia pura: “Per capire una città bisogna usare l’occhio degli uccelli che guardano dall’alto”. Di ogni città parli della musica, dei cibi che bisogna gustare delle atmosfere che bisogna vivere.
Il racconto di Rotterdam, ma anche quello di Siviglia, mi permette di riflettere insieme al lettore dell’importanza di guardare e capire le città dall’alto, per riscoprire alcune caratteristiche che si comprendono solo elevando lo sguardo. Per troppo tempo, infatti, il livello aereo delle città è stato trascurato a favore di una bulimia costruttiva che si è concentrata sul singolo edificio, obbedendo alla voracità del mercato immobiliare, invece che dedicarsi alle connessioni leggere tra gli edifici, al recupero delle funzioni pubbliche dei tetti degli edifici, all’offerta di inusuali e seducenti punti di vista dall’alto che permettono di godere meglio della meraviglia delle città, lontani dal rumore di fondo della quota stradale e sottratti alla bolla individualista degli interni degli edifici: la città dei topi. Dobbiamo riscoprire la città dall’alto, imitando la Marzia descritta da Italo Calvino, la città delle rondini, dove «nel cielo d’estate si chiamano come in gioco. […] Quando meno t’aspetti vedi aprirsi uno spiraglio e apparire una città diversa, che dopo un istante è già sparita. Forse tutto sta a sapere quali parole pronunciare, quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo, la risposta, il cenno di qualcuno, basta che qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di farla, e perché il suo piacere diventi piacere altrui: in quel momento tutti gli spazi cambiano, le altezze, le distanze, la città si trasfigura, diventa cristallina, trasparente come una libellula».
Per questo motivo non racconto solo lo spazio architettonico delle città, ma le percorro e le osservo non solo con gli occhi della conoscenza tecnica, ma mi interesso anche della vita dei quartieri in cui vivono, lavorano o socializzano le persone. I miei occhi e le orecchie entrano fin dentro le case, i bar, i teatri, le discoteche, le università, i centri culturali o i centri sociali – persino i matrimoni – per carpire brani di conversazione, frammenti di discorsi amorosi, echi di vite sociali, per ricostruirne il disegno generale. Le storie che racconto non riguardano solo l’architettura, l’urbanistica o il patrimonio culturale, ma offrono una versione più personale della cultura locale, della storia sociale e dei problemi di pianificazione affrontati dai residenti e dalle istituzioni, fino ad assaporare i molteplici gusti, a sentire i differenti suoni e a godere delle canzoni che hanno messo in musica il carattere delle città. Anche le corse all’alba lungo parchi, fiumi e strade non sono solo un godimento personale, ma mi permettono di raccontare come le città si sveglino, e ognuna lo fa in maniera diversa: ci sono quelle che non dormono mai, quelle che si risvegliano di colpo con una umanità chiassosa, quelle che si rianimano lentamente con un ritmo andante dalle periferie verso il centro che produce una vibrazione come la pelle d’oca su un’epidermide e quelle che si schiudono al progredire del sole che le attraversa sorgendo e che sembra riscaldarle per convincere gli abitanti a uscire dal tepore del letto. Poi ci sono le città che si destano a brandelli, per parti o per corpi: non si svegliano interamente ma solo quei quartieri legati a particolari attività lavorative, nobili e talvolta oscure, mentre altre parti poltriscono ancora confidando sulle attività di chi non dorme. Alcune città sonnecchiano fino a tardi, altre sono attraversate da una umanità vivace fin dall’alba, altre ancora cedono il posto degli abitanti notturni a quelli diurni in una speciale dissolvenza che si riconosce per il mutare progressivo dell’abbigliamento. Ci sono quelle che si svegliano presto per necessità e quelle che lo fanno per diletto, quelle dal risveglio domestico e intimo e altre da quello sociale ed estroverso. Alcune città all’alba sono già tiepide o afose, altre non riescono a riscaldarsi al debole sole, altre ancora sono percorse dal vento che agevola o contrasta chi corre. Infine, in alcune città si corre lungo meravigliosi percorsi dedicati su una superficie morbida e reattiva, in altre si capisce che si sta usurpando una strada che dopo poche ore sarà riconquistata dalle automobili. Correre all’alba lungo le città, inoltre, mi fa scoprire itinerari e luoghi che durante il giorno il frastuono della vita quotidiana renderebbe quasi invisibili, mi dona punti di vista inusuali e mi fa godere della musica intima delle città, quel peculiare suono che le caratterizza, fatto di clangori, sospiri, cigolii, voci, rombi, frastuoni, silenzi, permettendomi di condividere con i lettori le progressive emozioni della scoperta.
-Qual è la vita segreta di Palermo?
Tutte le città del mondo possiedono una vibrazione narrativa, che tutti noi percepiamo anche se in diversi gradi di consapevolezza e capacità di condividerla. Io, per il mestiere che faccio, riesco a leggere la grammatica urbana, so ascoltare la narrazione delle città, so vederne la vita segreta celata dietro le narrazioni ufficiali, e mi piace trasmetterla ai lettori. Rimango incantato nell’ascolto delle città, diventando parte di quella comunità narrativa del romanzo urbanistico che le città scrivono e riscrivono da millenni e che determina un campo di tensione, un ambiente di relazioni e racconti in cui mi immergo galleggiando nelle sue acque placide e saltando sui moti ondosi, annegando nel quotidiano e veleggiando sul futuribile. Un campo di tensione e relazioni che produce l’aura delle città che è la vera protagonista di questo libro, non (solo) i progetti, non (solo) gli aneddoti, non (solo) gli indizi di futuro, ma (soprattutto) l’aura che ognuno di essi irradia e che rende diversa e riconoscibile ogni città, nella sua speciale brillantezza nel vasto spettro urbano del pianeta.
I miei racconti non vogliono eliminare l’atmosfera che circonda la vita segreta delle città, ma, anzi, intendo esaltarla, trasmetterne le emozioni, condividere quello scambio di sguardi di seduzione tra noi e le città che non sempre comprendiamo con i sensi razionali ma che percepiamo con la mente emotiva. Anche Palermo ha un’intensa vita segreta che alimenta la sua vibrazione narrativa e che ho raccontato nel mio precedente libro “Palermo. Un’idea di cui è giunto il tempo” (Marsilio, 2023), in cui racconto delle identità di una città cosmopolita, piena di contrappunti, dalle mille posture e, soprattutto, animata da mille storie che si intrecciano alla ricerca di qualcuno che le tessa in un racconto unitario, che poi è il racconto della Palermo del futuro prossimo venturo o del diverso presente, come preferisco chiamarlo.
-C’è un nesso tra architettura, città e letteratura?Mi viene in mente il libro cult di Italo Calvino “Le città invisibili”
Il rivoluzionario libro di Italo Calvino Le città invisibili (ma ognuna di esse ne contiene altre visibili e reali) è un riferimento imprescindibile del mio libro. Le quarantadue città che ho selezionato racchiudono il senso fondamentale del pianeta urbano e le faccio parlare attraverso la mia voce per dare scrittura alle storie che mi hanno raccontato visitandole per pochi giorni o abitandole per periodi più lunghi, alle esperienze che mi hanno fatto vivere, alle atmosfere che mi hanno fatto respirare, e anche alle curiosità più minute – una canzone, un cocktail, un miraggio, una cena o una corsa – che hanno reso memorabili quei dialoghi tra un urbanista e una città e che mi consentono di raccontarle nella forma sperimentale di un romanzo urbanistico, invece che nella forma più tradizionale di un saggio scientifico. Tutte le quarantadue città raccontano una storia peculiare, forniscono un indizio utile a capire come sono uscite o stanno per uscire dal declino o come stanno concludendo una transizione di sviluppo che le renderà ancora più accoglienti per le persone che le abitano o le visitano. In effetti, sono altrettante storie d’amore tra me e le città che spero possano diventare degli innamoramenti anche per i lettori del libro, perché possano generare quello speciale “stato nascente” – per dirla alla Alberoni – ove nella relazione amorosa si muta, si accede a un nuovo stato della vita, una sorta di incantesimo davanti al quale restiamo meravigliati e riconoscenti. È questo incantesimo nella relazione affettiva con le città che racconterò, perché serva a far mutare positivamente, a far evolvere verso un futuro migliore le città che abitiamo, che governiamo, in cui lavoriamo, quelle che già amiamo ma che pretendiamo che siano migliori, a misura dei nostri bisogni e dei nostri sogni o, meglio, a misura dei bisogni e sogni delle nuove generazioni. Ogni città dona un indizio che, messi tutti insieme grazie al racconto – ma soprattutto grazie all’azione personale che faranno i lettori per completare la conoscenza di quelle città attraverso altre fonti di informazione – producono un quadro di pratiche e di strategie che dipingeranno il quadro di una più grande storia del pianeta urbano attraverso il protagonismo delle città che lo compongono e delle comunità che lo animano. Saranno le città a raccontare le loro storie, attraverso la mia scrittura, come soggetti viventi e non solo luoghi. Se vuoi dire qualcosa di esatto scrivi un saggio, se vuoi dire qualcosa di memorabile scrivi un romanzo!
-Cosa si intende per Health Cities?
Percorrere il Medical Corridor lungo la First Avenue di New York mi ha fatto riflettere sul ruolo che un sistema ospedaliero di qualità ha sulla bellezza ed efficienza delle città. Guardando la bellezza e la cura degli spazi di accettazione e degenza degli ospedali di New York come non domandarsi se sia possibile anche in Italia, senza far gravare ulteriori costi sui malati, mettere a sistema le ingenti risorse già esistenti per generare un valore aggiunto di integrazione e conseguenti economie di scala tra la clinica, la ricerca biomedica e ingegneristica, tra il settore edilizio e dei materiali, tra le politiche sociali e quelle urbanistiche, tra la ricettività e la riabilitazione, tra la ricerca farmaceutica e quella accademica, entro un efficace sistema che possa stimolare la rigenerazione delle città, come già accade in alcune pratiche non solo newyorchesi. Per questo credo che serva una nuova urbanistica della salute, su cui già lavorano alcuni colleghi urbanisti in giro per l’Europa, insieme ad altri esperti, un fertile campo di riflessione e sperimentazione per le città che aumentano le loro capacità anche attraverso il potenziamento della salute pubblica, le cosiddette Health Cities. La salute, infatti, non è più solo un bene individuale ma è un bene comune che richiama ciascuno ad adottare comportamenti virtuosi basati sul rispetto reciproco e richiede una conseguente organizzazione della città in grado di condizionare e modificare i bisogni emergenti, gli stili di vita e le aspettative degli individui. Una città del benessere quotidiano che si prende cura e cura i suoi abitanti.
-Da 6000 anni viviamo nelle città, ma le città sono esseri viventi?
Elio Vittorini nel suo libro Le città del mondo, già le aveva raccontate come esseri viventi, popolate da altri esseri viventi ognuno alla ricerca affannosa di qualcosa. Città sognate dai personaggi del romanzo, create sotto la spinta dei loro desideri e delle loro aspirazioni alla felicità, rievocate nei loro discorsi immaginari ma sempre osservate da lontano. Anche il mio libro sperimenta la forma del romanzo e intende innovare la letteratura scientifica urbanistica, individuando la città come idea universale del genere umano e raccontandola come un organismo vivente complesso e non solo come lo spazio in cui le persone vivono le loro vite. La città non è solo teatro della vita, è essa stessa personaggio e scena, protagonista e coro.
-Nel libro parli di grandi architetti come Richard Rogers un architetto inglese nato a Firenze e di Renzo Piano. Questi grandi architetti nella metà degli anni 70 hanno scardinato i dogmi dell’intervento di recupero conservativo nei centri storici. Puoi spiegare meglio questo concetto del recupero conservativo?
Il progetto per il Centre Pompidou è stato uno scardinamento dei dogmi dell’intervento sui centri storici che ha aperto, grazia alla sublime qualità del progetto, una strada importante all’introduzione della buona architettura contemporanea nei tessuti storici. Da quell’atto apparentemente eretico, ma in effetti solo profetico, sono nati altri progetti che hanno reinterpretato i luoghi storici senza soccombere alle forme precedenti, ma comprendendo il genius loci e rendendolo contemporaneo e capace di accogliere la vita attuale e non sono quella dei secoli precedenti. Il Centre Pompidou ha inaugurato una nuova forma di spazio urbano ibrido che si evolve e muta come una musica suonata su uno spartito (l’edificio) su cui eseguire improvvise variazioni, improvvisazioni, jam session, incursioni corali, forse persino il lancinante trillo di un telefonino viene incluso nella esecuzione. Un edificio/spazio muta forma che ha importanti epigoni in altre città, anche se senza quella carica di eresia architettonica dell’edificio di vetro e metallo blu, rosso, verde e bianco di Rogers e Piano.
-Quali attenzione dedicano gli architetti alla città contemporanea, alla scuola, agli spazi negati ai bambini che non possono giocare per le strade. I condomini di un palazzo signorile di Palermo, dove c’era uno spazio ludico per i bambini, hanno scelto quello spazio per parcheggiare le loro auto e c’è una lite al giorno.
Nel libro racconto spesso delle scuole e degli spazi che le circondano, ma è stata la visita a Clichy-Batignolles a Parigi che mi ha fatto capire che lì è in corso di sperimentazione il prototipo di quella strategia di urbanità di prossimità che sarà chiamata da Carlos Moreno, professore alla Sorbona, “la città dei 15 minuti” e di cui Parigi oggi è mentore per molte altre città. L’obiettivo principale, infatti, è stato rendere il nuovo quartiere più a misura delle persone e per farlo si è partiti dalle scuole. Qui asili, elementari, collegi e licei sono gli elementi generatori di urbanità, sono essi che dettano il ritmo del quartiere: alla loro apertura mattutina è legata quella di uffici e negozi e con essi la città si mette in moto. Clichy-Batignolles è stata la placenta che ha accudito la visione di Parigi come città dei quartieri, attraverso l’applicazione di un modulo urbanistico che colloca una scuola ogni trecento metri circa, dagli asili nido ai licei. E qui, camminando, ne vedo di tutti i tipi: colorate, in legno, in materiali riciclati, con cortile aperto al quartiere, immerse nel parco, ecologiche, su palafitte, tutte esibenti orgogliose la bandiera e il motto “liberté, égalité, fraternité”, parole che sembrano state pensate per questo luogo che garantisce la libertà dei diversi stili di vita e di culto, l’eguaglianza dei diritti e delle opportunità e la fratellanza e sorellanza tra le diverse comunità che convivono in questo straordinario nuovo spazio urbano. Ogni scuola è stata resa sicura, pedonalizzando la via sulla quale si affaccia in modo da avere un’adeguata area di calma per gli studenti, anche se tutto il quartiere è già a bassa intensità di traffico veicolare. La presenza delle scuole, oltre che migliorare la dotazione di servizi, concorre ad attrarre esercizi commerciali di prossimità in quelle strade, aumentando l’appetibilità dell’area anche per gli uffici. E più si trasferiscono attività nelle singole zone, meno è necessario usare la macchina, e quindi si riducono le emissioni, si spreca meno tempo negli spostamenti, si risparmiano soldi, e si alza la qualità della vita.
-Leggendo il libro mi viene in mente che scriverai il seguito con altre città del mondo …
Si! L’ho già scritto nella mia mente e nella memoria, devo solo trascriverlo. Forse sarà un viaggio in Italia come quello di Guido Piovene, alla ricerca della oscillazione tra infelicità e felicità delle città italiane. O forse racconterò delle città che ho escluso da questo libro e che nella mia mente reclamano di essere raccontate, perché anch’esse hanno belle storie da raccontare.
-Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
“La vita è quello che ti accade mentre fai progetti”, diceva Jim Morrison. E io vivo così la mia vita: la progetto, la immagino, e poi so riconoscere alcuni bivi e adattamenti e viverli con meraviglia e incanto.
Biografia
Maurizio Carta (Palermo 1967), urbanista e architetto, è professore ordinario all’Università di Palermo. Tiene lezioni e svolge attività di ricerca in numerose università, tra cui la Columbia University di New York, l’Institut d’Urbanisme de Paris, la Leibniz University di Hannover. Dal 2017 dirige l’Augmented City Lab, dedicato alle città sostenibili del futuro prossimo. Nel 2019 è stato Italian Design Ambassador. È autore di numerose pubblicazioni, in Italia e all’estero. Tra i suoi libri più recenti: Cosmopolitan Habitat (2021), Homo urbanus. Città e comunità in evoluzione (2022), Palermo, un’idea di cui è giunto il tempo (2023). Con Sellerio ha pubblicato Romanzo urbanistico. Storie dalle città del mondo (2024).