Ritratti: scrittori del nostro tempo Maurizio Piscopo incontra Umberto Apice

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Ci sono dei libri che restano nella vita di un uomo. Dopo aver letto Processo a Pasolini di Umberto Apice con la prefazione di Roberto Saviano pubblicato da Zolfo Editore, per molte ore sono rimasto in silenzio a riflettere. Il libro di Apice da far girare nelle scuole, negli ambienti di cultura, di cinema, di teatro, di scrittura e nelle università italiane e straniere mi ha fatto conoscere molte cose che da giovane mi erano sfuggite. E’ un libro che propongo a tutti, ai lettori di Ripost, ai miei amici, a coloro che seguono l’altra campana, a tutti quelli che cercano la verità e non si accontentano delle notizie dei Tg. La morte di Pasolini è un mistero tipicamente italiano. Umberto Apice, magistrato e narratore, intraprende una strada nuova per indagare le verità e le sfaccettature rimaste ancora nascoste. Lo fa partendo dall’accusa giudiziaria più surreale tra le tante che furono architettate contro lo scrittore-regista: l’imputazione di una tentata rapina a mano armata. Quel processo degli anni Sessanta viene usato nel libro come bussola per cercare, nella selva dei pervicaci fatti persecutori, una logica e una regia comuni. Un’indagine documentata e ragionata: il cui esito è un’ipotesi molto più che plausibile di un accanimento protrattosi per oltre quindici anni e

programmato da ambienti caratterizzati da sottocultura omofoba e odio politico.

Una figura aveva sempre ossessionato Pasolini: Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Cristo morì per salvare gli uomini. Pasolini sapeva di non poter salvare nessuno, tantomeno se stesso. Voleva soltanto conoscere la morte atroce, immotivata, vergognosa- la vera morte non quella lenta e pacifica che sopportiamo nei letti educati- la morte che aveva sempre reso terribile la sua dolcezza. Questa è una delle pagine del libro di Umberto Apice dal titolo Processo a Pasolini, Zolfo Editore, che mi ha molto colpito. Il libro fa comprendere i tormenti di un artista scrittore, regista e sceneggiatore che tutto il mondo ci invidia, fa rivivere un periodo storico tormentato del nostro Paese e fa conoscere la verità su una morte annunciata. Nella scrittura di questo testo si sente la mano di un uomo di legge che conosce come vanno le storie italiane. Ma andiamo a conoscere da vicino il magistrato Umberto Apice.

-In quali anni nasce in lei la passione per la scrittura e l’idea di scrivere un libro su Pier Paolo Pasolini?

Sin dagli anni dell’adolescenza ho visto nel mio futuro un impegno di scrittore. Leggevo Hemingway, Sartre, e pensavo: farò il romanziere. Il diritto fu la mia seconda passione, almeno in senso temporale: mi sentii subito coinvolto quando cominciai lo studio del Diritto Privato, del Diritto Romano, e più avanti del Diritto Penale. La mia fortuna fu, vincendo il concorso in Magistratura, di fare un lavoro che mi ha permesso di continuare gli studi giuridici e contemporaneamente di venirmi a trovare in un luogo di osservazione privilegiato della realtà umana nelle sue molteplici sfaccettature. Il che costituiva un incessante pungolo a occuparmi anche di narrativa, facendola e leggendola.

Quanto a Pasolini, mi sono interessato alla sua figura in più di un’occasione. La prima volta fu tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta: cominciò a incuriosirmi il suo cinema di quegli anni ( Teorema, Medea, Il Vangelo secondo Matteo, Porcile ), che trovavo portatore di una grande carica eversiva. Intanto, cominciai anche a leggere le prime cose: Teorema, se non sbaglio, che era un romanzo oltre che un film. Poi ci fu l’evento della morte: e leggere Pasolini divenne una moda. Il mio interesse divenne qualcosa di più solo dal momento che lessi la biografia scritta da Enzo Siciliano ( Vita di Pasolini, Milano, 1978 ). Rimasi impressionato dalla quantità di processi penali che Pasolini aveva subito come imputato. Tra i tanti, mi colpì quello della tentata rapina in un bar – tabacchi del Circeo. Nacque in me il proposito di saperne di più, ma poi rinviai il progetto. Forse lo dimenticai proprio. Me ne ricordai molti anni più tardi quando conobbi un collega che fu nominato Presidente del Tribunale di Latina ( che era il Tribunale che in prima istanza aveva giudicato quella surreale denuncia presentata da due ragazzi del Circeo). Questa volta scattò una molla che mi soggiogò per tutto il tempo che mi servì a scrivere il libro. Il collega mi procurò una copia dell’intero incartamento e io ci lavorai assiduamente: oltre agli atti del processo, lessi – anche un pò disordinatamente – pagine e pagine di opere di Pasolini, biografie e testi critici. Fu così che nel 2007 uscì Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, prefazione di Cesare Milanese ( Palomar editore ). Il testo è stato, poi, modificato e ampliato, e in una nuova edizione è uscito nel 2022 col titolo Processo a Pasolini. Un poeta da sbranare, prefazione di Roberto Saviano ( Zolfo editore ).

-Perché la morte di Pasolini è da considerare un mistero tipicamente italiano?

A prescindere dalla “ verità processuale ” costituita dalla sentenza passata in giudicato, sono tre le ipotesi possibili che mi sembrano astrattamente non prive di una certa razionalità: a) uccisione avvenuta nel corso di un tête – à – tête omoerotico; b) vendetta perpetrata nel mondo omosessuale di Roma e messa in opera da un gruppo di persone rimaste sconosciute, con o senza la partecipazione di Pelosi; c) complotto politico maturato a seguito delle “ requisitorie ” di Pasolini ed eseguito da sicari della malavita romana. Ora, a me sembra che l’ipotesi più probabile sia quella del complotto politico. Più probabile, non certa al cento per cento. Un gruppo di persone che contano ( le “ menti raffinate ” di cui parlava Giovanni Falcone a proposito della mafia e della politica? Perché no? ) incaricano la manovalanza spicciola ( leggi: malavita romana e sicula ) di compiere l’omicidio ( o di dare una pesante lezione ). Non è un’ipotesi cervellotica. Nella storia italiana di quegli anni i misteri in cui si intrecciavano politica e delinquenza sono stati molteplici. Certo è che la ricostruzione risultante dalla sentenza passata in giudicato fa a pugni con parecchi elementi indiziari.

-Nel suo libro molto interessante e pieno di spunti ho letto: la vita di Pasolini fa paura. Cosa c’è dietro queste parole?

Divo e reietto: questa per lunghi anni è stata la condizione esistenziale di Pasolini: omosessuale, braccato dalla censura, guardato con sospetto dai partiti di destra e da quelli della sinistra, marxista e antimarxista. Alla cultura borghese dell’epoca non poteva che incutere timore un personaggio come Pasolini. Che effetti ci potevano essere – nei costumi, nel linguaggio, nella pratica religiosa, nel voto politico – se persone come Pasolini cominciavano ad avere seguito? Sarebbero bastate le manifestazioni narcisistiche, da sole, a trasmettere inquietudine. E’ significativa la vicenda delle foto Pedriali. Poche settimane prima di morire, Pasolini si accompagna al fotografo Dino Pedriali. Gli ha affidato un servizio fotografico e, tra l’altro, molti scatti lo ritrarranno nudo nelle stanze della sua casa a Chia, in provincia di Viterbo, acquistata perché nelle intenzioni lì si sarebbe presto rifugiato per dedicarsi alla letteratura: quei nudi dovranno servire a illustrare un romanzo ( il postumo Petrolio ) a cui Pasolini sta lavorando e che resterà incompiuto. Narcisismo, certo. E, nel caso delle foto Pedriali, non narcisismo di vita, piuttosto narcisismo di morte: per la loro freddezza funerea, quelle foto di un corpo misterioso, visto da lontano e attraverso i vetri di una casa deserta, ispirano un senso di solitudine e un vago presagio di tragedia.

– Perché gli anni 70 vengono definiti anni “bastardi”?

La definizione è molto cara a Walter Veltroni, che non si rassegna all’idea che la morte di Pasolini sia passata nell’immaginario collettivo come la morte di un depravato per mano di un marchettaro (anche se la sentenza di primo grado affermò che all’omicidio parteciparono, oltre al minore Pino Pelosi, altre persone rimaste sconosciute ). E non posso dargli torto. Quell’omicidio, per molti aspetti, è rimasto ancora avvolto nel mistero. Chi ha occhi per vedere sa che la verità della morte di Pasolini è una verità più complessa di quella risultante dalla sentenza passata in giudicato: Pino Pelosi avrebbe rifiutato una richiesta sessuale non pattuita e ne sarebbe sorta una colluttazione, in esito alla quale Pasolini trovò la morte. No, sono troppi i particolari e gli indizi che non collimano con questa versione.

-Cos’è che colpisce di più nelle vicende giudiziarie vissute da Pasolini?

A osservare gli ultimi quindici anni di Pasolini, non si può fare a meno di notare quanto furono tutti impregnati della presenza costante della giurisdizione. E Pasolini, che cercava di essere sempre presente alle udienze che lo riguardavano, divenne un frequentatore di Tribunali. Si può dire allora che la fascinazione che il sistema giudiziario ha spesso esercitato sugli scrittori ( Dickens, Kafka, Cechov, Dürrenmatt ), nel caso di Pasolini si presenta anzitutto in senso inverso: è stato il mondo giudiziario a interessarsi a tutto quello che faceva Pasolini, dai comportamenti della vita privata ai suoi film e ai suoi scritti. E, per una sorta di Nemesi storica, accadde che lo stesso Pasolini finì per assumere la veste di pubblico accusatore quando, verso la fine della sua vita, cominciò a invocare processi contro il Potere. Del resto, non era vero che gli piaceva ripetere che si sentiva come un nuovo dottor Jekill, colpevole e innocente?

-Quindi, c’era negli ambienti della magistratura una volontà persecutoria nei confronti di Pasolini?

E’ bene fare a questo punto una precisazione. Nell’ordinamento italiano vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ciò significa che, pervenuta una notitia criminis, il pubblico ministero apre un fascicolo e inizia l’azione penale. Nel caso dei processi subiti da Pasolini, si trattava per lo più di processi insorti a seguito di denunce private e querele. Quindi, non si può dire che ci fosse in Magistratura una volontà persecutoria. Oltre tutto, nella maggior parte dei casi – se non in tutti – i processi si conclusero a favore di Pasolini.

-Ma alla fin fine si potrebbe dire che Pasolini se l’andava cercando?

Sono in molti a ritenere che Pasolini facesse di tutto per crearsi un destino da perseguitato. Si affaccia qui un aspetto della realtà esistenziale di Pasolini che nessuno dei suoi biografi ha sottovalutato: Pasolini voleva effettivamente costruirsi addosso un destino da perseguitato. E la persecuzione fu soprattutto di carattere giudiziario. Stefano Rodotà, giurista e fine osservatore della realtà, scrive che è come se a carico di Pasolini si fosse celebrato “ un processo solo, ininterrotto per almeno vent’anni, che si gonfia e si arricchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e con la stessa finalità: mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana […]. Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo ”. Insomma, se è vero che Pasolini si comportava in maniera da costruirsi un destino da perseguitato, è altrettanto vero che la società attorno a lui tendeva a farne realmente un capro espiatorio.

-C’è qualche processo che di questa fenomenologia è più indicativo di altri?

Il processo, già menzionato, riguardante l’accusa di tentata rapina, è un lampante esempio di processo monstre, di processo che si trasforma in una farsa involontaria: nel libro Processo a Pasolini. Un poeta da sbranare ho illustrato minuziosamente le varie fasi ( dalla esilarante denuncia ai Carabinieri alla scontata conclusione di assoluzione ) e come Pasolini, vulnerabilissimo a causa della sua storia personale, diventasse, ogni giorno di più, il facile bersaglio di forze oscure. E molti altri processi seguiranno, tutti pretestuosi e paradossali: al punto da fare insorgere il sospetto di una regia accorta e organizzata. Una regia che – per restare nel campo delle ipotesi – nella vittima non trovava resistenza, ma collaborazione. Pasolini era provocatore e vulnerabile; anzi, era un provocatore che covava un inconscio desiderio di espiazione, di martirio. In un tipo di società che cercava la vittima sacrificale per potersi ricompattare in una sua indifferente innocenza, Pasolini aveva proprio quei tratti vittimari, quali le anormalità comportamentali, che potevano suscitare accuse, non importa se fondate, di avvelenamento della comunità.

-Studiando la vita e le opere di Pasolini, si è fatto un’idea di che tipo di persona fosse? Per esempio, era una persona facile da trattare?

Tutto il contrario. Vediamolo attraverso gli occhi del fotografo Paolo Di Paolo, che lo frequentò nel 1959, essendo stati incaricati dalla rivista Successo a compilare una serie di reportages sulle spiagge italiane: lo scopo era raccontare le vacanze degli italiani nel periodo del boom economico. Di Paolo ricorda che Pasolini parlava poco. Se cenavano insieme, subito dopo Pasolini salutava e scompariva, magari per aggregarsi a gruppi di ragazzi vocianti. Si affacciavano già i temi che in lui predominavano: l’antipatia verso i borghesi, l’attrazione per i ragazzi, il pauperismo come criterio di giudizio. Temi che di lì a poco lo ossessioneranno e lo porteranno a costruire la sua idea della “ mutazione antropologica ” e della “ omologazione ”. Dirà anni dopo Di Paolo: “ Ho sempre avuto l’impressione che fosse un uomo solo, senza veri amici: sì, li frequentava, ma starei quasi per dire di nascosto a se stesso ”.

-Perché Pasolini si trovava sempre isolato e in ogni ambiente che frequentava (cinema, letteratura, politica ) aveva pochi alleati?

Alla fine degli anni Cinquanta, nel 1959, uscirono il secondo romanzo, Una vita violenta, e una raccolta di poemetti, Le ceneri di Gramsci. Non mancarono lodi, ma le stroncature fioccarono. A Pasolini interessava soprattutto la reazione della critica marxista e da quel versante arrivarono gli attacchi più feroci. Carlo Salinari, Giovanni Berlinguer e Gaetano Trombatori lo accusarono di gusto morboso per il torbido, per ciò che è degenerato. Insomma, si voleva che lui esprimesse un messaggio chiaro di ottimismo rivoluzionario e non che indugiasse sulle problematiche culturali e morali che poneva la concezione socialista. Inevitabile Il dissidio con il Pci: non gli venne perdonato l’uso di termini osceni e volgari. E a sua volta Pasolini trovò insopportabile che si pretendesse da lui la mistificazione della realtà. Intanto, a ogni nuovo film e a ogni nuovo libro che escono, seguono una denuncia e un processo per oscenità. C’è un’attenzione spasmodica verso la sua vita privata e ogni minimo fatto viene grottescamente amplificato e stigmatizzato dalla stampa. In un primo tempo, con il lavoro nel cinema ( Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, La ricotta ) Pasolini mostra la sua attrazione verso il sacro, il mitico: e sempre più viene frainteso e bersagliato. Come per i libri, la stampa ( giornali di destra e giornali di sinistra ) è compatta nell’opera di linciaggio. “ Una mortificazione ”: fu questo lo sfogo di Pasolini. Poi, nei film successivi ( Uccellini e uccellacci, Edipo re, Medea, Teorema, Porcile ) l’attenzione sembra focalizzarsi sul passaggio dal mito ai falsi idoli della nostra epoca: le narrazioni colgono l’instaurarsi di un’ideologia edonistica e insieme la perdita del sentimento del sacro. Fino ad arrivare a una terza fase: qui, come ho scritto in Processo a Pasolini. Un poeta da sbranare, Pasolini non risparmia nessuno strale contro l’avvento di una cultura neocapitalistica e consumistica, che riduce gli individui a schemi, a formule, privandoli degli indispensabili codici di comportamento ( Decameròn, I racconti di Canterbury, Il Fiore delle Mille e una notte e il postumo Salò o le centoventi giornate di Sodoma, come pure il romanzo postumo Petrolio ).

Non ebbe amici? Pochissimi, ma fidatissimi ( Alberto Moravia, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Dario Bellezza ) e talvolta morbosamente attaccati ( Laura Betti ).

-Pasolini , umanamente e artisticamente, è un modello da imitare?

Dal punto di vista artistico, tendo ad escludere che esistano modelli da imitare. L’arte, qualunque essa sia, dalla narrativa alla poesia e dalla pittura alla musica, è il contrario dell’imitazione. Perciò, non ha senso chiedersi se un autore possa valere come modello. Pasolini modello umano? Credo che lui stesso fosse il primo a non vedersi come un nuovo San Francesco o un nuovo Gandhi. Anzi, come ho già detto, si riteneva una specie di dottor Jekill. La sua vita privata ( dalla ricerca del sesso prezzolato e proibito al godimento dei privilegi di una società consumistica ) era il contrario di quanto andava predicando. In un suo libro molto bello ( Gridalo ) Roberto Saviano dice che esistono due tipi di intellettuali, quelli che raccontano la vita osservandola come da dietro a un paravento, e quelli che ci si devono schiantare addosso, perché solo quando sono al tappeto, agonizzanti, allora riescono a descriverla. Pasolini era del secondo tipo: dentro alla vita, colpevole come gli altri.

-E qual’è il suo giudizio su Pasolini artista?

Oggi, parlando di Pasolini 48 anni dopo la sua tragica morte, mi rendo conto del fatto che a lui si è rivolta una immane produzione saggistica, cosa che ha indotto inevitabilmente una forte tentazione celebrativa. La presenza di Pasolini è divenuta un mito, un feticcio. Un feticcio da sfruttare da parte di chiunque, intellettuali e politici di varia provenienza. Negli anni ‘90, con felice intuizione, ci fu chi disse che Pasolini era assurto a modello di fruttuoso acchiappa – sponsor ((Enzo Golino ). E’ evidente invece che bisognerebbe evitare atteggiamenti agiografici e iperbolici ( mi è capitato di leggere queste assurde esagerazioni: “ un genio senza rivali ” oppure “ il più grande intellettuale del Novecento ”). In letteratura le classifiche non hanno nessuna giustificazione. E’ indubitabile – questo sì – che Pasolini ha lasciato una mole impressionante di scritti: ben ventimila pagine! E che due sono le caratteristiche esteriori più evidenti: l’incompiutezza ( a Pasolini interessava progettare, non finire i progetti iniziati ) e la sovrabbondanza. Il “ non compiuto ”, “ non finito ”, non attiene solo a Petrolio, rimasto incompiuto per l’intervenuta morte, o alla Divina Mimesis, che Pasolini volle incompiuta volontariamente ( nelle ultime pagine Pasolini, che fino allora è stato un Virgilio – Dante sceso nell’inferno delle borgate romane, assume le sembianze di un terzo personaggio, l’editore, che in una nota avverte dell’incompiutezza perché l’autore “ è stato ucciso a colpi di bastone, a Palermo ”). E incompiuto – ciò è quanto mai emblematico – rimase anche il suo primo romanzo, Atti impuri, iniziato quando Pasolini viveva ancora a Casarsa. Un autore magmatico, contraddittorio, incompiuto: e con una sua indubbia profeticità.

-Ma è ancora attuale Pasolini?

E’ un interrogativo che viene posto spesso. E il problema è lo stesso che si pone per qualunque autore che sia stato in vita molto popolare. La distinzione va fatta a monte: tra i veri scrittori e gli “ scriventi ”. Gli scriventi non sono mai attuali, neppure quando i loro libri sono venduti più degli altri. Gli scrittori veri – è stato detto – sono quelli che scrivono come se tenessero un diario di bordo. Viaggiano nella vita, vedono accadere cose, cercano di avvicinarsi a qualche verità e continuano a farlo persino dopo essersi accorti che la verità definitiva continua a sfuggire. Pasolini è stato un intellettuale importante del Novecento, importantissimo, questo è innegabile: ma è inutile chiedersi se è attuale o se è uno scrittore che si fa amare.

-Qualcuno ha scritto che Pasolini era il giovane triste, è d’accordo su questa descrizione?

E’ vero, è stato scritto. Ma Pasolini stesso condivideva questa definizione. Si sentiva di una tristitia consapevole, voluta e amata. In un’intervista disse a Enzo Biagi che “ invecchiando si diventa allegri, perché si ha meno futuro e quindi meno speranze. E questo è un gran sollievo ”. La vanificazione delle speranze come fonte di allegria? Non riesco a trovarmi d’accordo con lui. Probabilmente, se fosse arrivato a sfiorare la vera vecchiaia, Pasolini avrebbe cambiato idea. Diciamo piuttosto che la giovinezza si accompagna spesso con l’allegria, un’allegria sconsiderata e folle, che d’improvviso può tramutarsi in disperazione assoluta. Pasolini non conosceva questi alti e bassi: viveva in una perenne condizione di sfiducia nella Storia, ma con il privilegio di attingere spesso l’estasi dell’invenzione artistica. Io credo che, a suo modo, avesse una sua segreta gioia di vivere, che era diretta conseguenza della sua forza creativa. Felicità e infelicità strettamente avvinte. In anni giovanili scrisse a Sergio Telmon: “ Questo vivere è una perpetua, dolorosa meraviglia ”.

-Il nome dello scrittore-regista conosciuto in tutto il mondo, da noi non si poteva pronunciare né sulla stampa, nè in Tv, le sue passioni erano costrette a non avere residenza?

Questo è vero solo in parte. Cioè, è vero, ma solo per un circoscritto periodo di tempo. In realtà, più circolava l’ordine ( da parte dei centri di potere ) di ignorare Pasolini sui media, più cresceva la sua fama e aumentavano i suoi lettori. Emanuele Trevi, in Qualcosa di scritto, si è divertito a stilare un elenco di probabili lettori di Pasolini ( paranoici, artisti in cerca di metafore rivelatrici, studiosi serissimi, soggetti disturbati in cerca di identificazione, politici in cerca di purezza, gente che non sa nemmeno cosa cerca ), concludendo che il suo pubblico è più eterogeneo, per non dire più equivoco, di quello che tocca in sorte di solito agli scrittori.

-I politici, gli intellettuali, i benpensanti avevano paura delle visioni di Pasolini, che aveva parlato di mutazione antropologica, di omologazione di massa. E ancora non era arrivato Berlusconi con le sue televisioni che hanno appiattito la cultura e i sentimenti degli italiani portandoli al livello più basso mai raggiunto prima, fino a rinnegare la cultura contadina …

Con l’avvento di Berlusconi, in Italia si installò uno stile di vita che si nutriva di fatuità e mercantilismo. Lei parla giustamente di appiattimento della cultura. Ora, Pasolini era ossessionato da quella omologazione che, secondo lui, avrebbe portato a una fascistizzazione dei costumi, dei sentimenti, del linguaggio. E la Storia gli ha dato ragione. Per circa vent’anni il berlusconismo è stato un pericolo sottile e strisciante: basterebbe pensare all’abuso che i governi facevano delle leggi ad personam ( utilizzate da Berlusconi per sottrarsi all’eventualità di condanne penali ), quanto di più contrario a un processo legislativo rispettoso dei princìpi democratici. Tra l’altro, questa è l’atmosfera che fa da sfondo al mio romanzo “ Anni e disinganni ”, uscito nel 2015.

-Lei considera quindi Berlusconi responsabile di una caduta del senso etico nell’italiano medio?

E’ indubbio che le televisioni del cavaliere sono entrate nelle coscienze degli italiani e hanno dato un notevole contributo alla diffusione del trash, ma soprattutto – quel che è peggio – di un immaginario collettivo basato essenzialmente su una logica mercantile ( su una cultura “ del prendere ”, per usare il frasario del sociologo Zygmunt Bauman ).

-Da qualche pagina del suo libro viene fuori una giustizia che non fa giustizia, nella quale si condanna un cittadino senza prove e senza i dovuti approfondimenti e chi giudica ha interesse a condannare un personaggio scomodo, vedi caso nel giorno in cui nelle sale cinematografiche escono i suoi film: come Accattone escono anche le denunce…

No, escludo che nel mio libro si possa rinvenire un giudizio così drastico, che certamente non corrisponde al mio pensiero. Piuttosto, a un osservatore sereno non può sfuggire che, a partire dagli anni Sessanta la Magistratura italiana ha dato un forte contributo alla trasformazione del Paese. Non per nulla risale a quegli anni il dibattito sul ruolo del giudice, che fasce sempre più ampie di cittadini cominciano a vedere come mediatore di conflitti sociali, e non solo come applicatore di norme giuridiche acriticamente accettate ( bouche de la lois ). Va anche detto che certe accuse di politicizzazione della Magistratura venivano spesso mosse a sproposito da parte degli ambienti più retrivi della società: guarda caso quando la funzione interpretativa di un giudice si muoveva nella direzione di un’espansione delle garanzie del cittadino. Cosa che succede ancora oggi. In realtà, a parte gli eccessi e gli errori, che innegabilmente ci sono stati, nell’ultimo cinquantennio la Magistratura ha dimostrato di avere la volontà e la capacità di combattere il terrorismo e la mafia, i bancarottieri e la corruzione. Ha fatto politica? Sì, ha fatto la politica della Costituzione: ha cercato di adeguare la normativa alla nuova realtà dei tempi ( interpretando le norme e applicandole in senso costituzionale o promuovendo presso la Corte Costituzionale il giudizio sulla conformità costituzionale ). Ed è esattamente la politica che il giudice “ deve ” fare.

-Quali sono i suoi progetti per il futuro?

In questi giorni ho cominciato l’editing di un romanzo che uscirà all’inizio del 2024 con l’editore Lastaria: è una sorta di commedia tragica, in cui si incrociano vari destini di persone che abitano in un quartiere di Roma. Due pièce teatrali ( una delle quali, proprio sulla morte di Pasolini, già portata in scena da una compagnia teatrale di Firenze, l’altra su due ex amanti che si telefonano dopo cinquant’anni che si erano persi di vista ) usciranno entro la fine dell’anno, unite in volume, con un altro editore. E intanto vanno avanti altri progetti: un racconto sugli ultimi giorni di Charlie Parker (un altro esperimento di narrativa biografica dopo Nelle stanze di Joyce e, in qualche senso, Processo a Pasolini), ancora un altro romanzo, eccetera. Come vede, non mi manca l’illusione di avere dinanzi a me tanto tempo a disposizione: è quest’illusione che permette agli uomini di iniziare una qualunque impresa a lungo termine, che è sempre una sfida contro la morte, o no?

Biografia

Nato a Torre del Greco, vive a Roma. Magistrato, ha svolto da ultimo le funzioni di Avvocato Generale presso la Corte di Cassazione. Autore di varia saggistica giuridica, ha cominciato, già negli anni Settanta, a pubblicare testi di narrativa sulla rivista “Nuovi Argomenti”. In seguito sono apparsi in volume alcuni suoi romanzi ( tra cui: Nelle stanze di Joyce, Vertigo Edizioni, 2013; Anni e disinganni, Novecento editore, 2015 ) e un volume di racconti ( Questa conoscenza ultima, Novecento Editore, 2014). Nel 2022 è uscita una singolare e corposa opera saggistica sulle interrelazioni tra Diritto e Letteratura ( Una musa per Temi. Diritto e processi in letteratura, Lastaria editore ).