“Buongiorno. Sono il maestro Piscopo, chiamo da Palermo. Desidererei parlare con il direttore di Repubblica Ezio Mauro”, chiesi al centralinista romano di via Cristoforo Colombo. “Attenda in linea, la faccio parlare con la segretaria”.
“Gradirei mettermi in contatto con Salvatore Ferlita, un giornalista di Repubblica. Oggi ho letto un suo articolo sullo scrittore favarese Antonio Russello, con uno stile unico, sono pochi ormai a scrivere così in Italia… Ha vergato un pezzo da incorniciare, una delizia per palati fini, per gente che sa distinguere l’oro dall’argento”.
Il centralinista mi disse di attendere in linea. Si informò ai piani alti della redazione. La voce morbida della segretaria del direttore mi rispose sorridendo: “Guardi, mi disse, Ferlita vive a Palermo, è un giovane giornalista, ma lei comprende che non sono autorizzata a dare il numero di cellulare. Lo informerò della sua telefonata”.
Uno del mio paese mi disse, senza giri di parole: “Ma come, non lo sai che è sposato con la figlia del dottore Pietro La Russa, che è stato sindaco di Favara per un anno, nel 1975?”.
Passarono poche ore e riuscii a parlare con Salvatore, che non conoscevo personalmente. Il giorno seguente lo incontrai, gentile e affettuoso. Ricordo che stava lavorando con l’editore veneto Santi Quaranta alla riedizione dei libri di Antonio Russello. Lo incrociai in una libreria di Palermo, alla presenza dello scrittore Giuseppe Bonaviri. Mentre lo ascoltavo pensavo di sognare. Finalmente nella mia vita avevo incontrato un vero scrittore, colto, umile, uno che ti fa nascere mille dubbi e mille domande, attento ai dettagli, uno di quelli che ha letto molti libri, più del pane che ha mangiato. Mi presentai, raccontai dei miei progetti, dei miei sogni, delle musiche dei barbieri, delle serenate, della Merica, dei carusi, del mio essere maestro all’antica in una Sicilia che non si arrende. Fu amore a prima vista. Da allora ci siamo sentiti quasi tutti i giorni e abbiamo collaborato a diversi progetti culturali. Io maestro di “scoli vasci” e lui chiarissimo professore all’Università Kore di Enna di Letteratura contemporanea con un futuro luminoso tutto da scrivere, in un paese dove più sono gli scrittori che i lettori e dove tutti si sentono pezzi unici. Per conoscere meglio Salvatore Ferlita e capire dove tutto è cominciato, sono andato a trovarlo a Piazza Armerina per conoscere sua mamma. La signora Concetta Caltagirone, dolce e cortese, professoressa al Liceo Sperimentale di Bivona di materie letterarie ha seguito il figlio sin da bambino. Lo teneva buono leggendogli molte pagine degli scrittori siciliani, gli ha fatto conoscere lo scrittore Luigi Pirandello, un nome che presto gli è rimasto impresso nella mente. Salvatore mi ha confidato, durante uno dei nostri viaggi per Favara, che scriverà un libro su Pirandello e lo dedicherà a sua madre che è stata, assieme alla zia, fondamentale nella sua formazione.
Dopo avere pubblicato tanti libri, partecipato a dottissime conferenze, ridato vita a scrittori dimenticati come Fiore, Russello, Petyx, Samonà, Saverese, Domina, Simili, Sàito, Vitarelli (solo per ricordarne alcuni), firmato articoli per la rivista“Segno” e per le pagine siciliane di “Repubblica”, Salvatore non si è mai montato la testa, ascolta tutti con pacatezza.
-I soliti ignoti è uno dei tuoi libri, con la prefazione di Andrea Camilleri. Chi sono gli autori dimenticati del ’900?
Sono parecchi, per una serie di motivi di loro s’è persa memoria, a stento qualcuno ricorda un titolo, quasi mai nei libri di storia della letteratura figurano perché travolti dalla fiumana del canone scolastico, del canone politicamente corretto. È vero che alcuni di questi autori obliati non hanno fatto nulla per conquistarsi lo spazio meritato perché vocati alla condizione fantasmatica, perché idiosincratici rispetto alle dinamiche classiche di autopromozione, di accattonaggio di attenzione o menzioni. Esiste una mafia della letteratura, che si manifesta in termini di arroganza intellettuale da parte di tanti studiosi, di vacua sfrontatezza ermeneutica. E che porta a favorire e a dare lustro a una cordata protetta. E poi ci sono le esclusioni scandalose, i ridimensionamenti colpevoli di quegli scrittori vanno in direzione opposta rispetto a quella su cui si muove l’opinione corrente, che non incrociano le mode, le tendenze. Basta compulsare un manuale scolastico per rendersene conto: di solito i libri di testo sono il trionfo dell’omologazione critica, oltretutto negli ultimi anni la luperinizzazione nei licei ha del tutto funestato l’approccio alla letteratura, in un trionfo di specialismi spesso aberranti, di parossismi respingenti, di forzature ideologiche intollerabili.
-Qual è il tuo rapporto con gli scrittori contemporanei?
In questo periodo con gli scrittori contemporanei intrattengo un rapporto determinato dalle consegne della redazione o da alcune uscite irrinunciabili (penso a scrittori come Houellebecq, Carrère, Auster, Murakami, Pamuk; gli italiani son messi maluccio: non si tratta di snobismo gratuito, di atteggiamento da lettore supercilioso e con smanie di sprovincializzazione. A mio avviso la letteratura italiana contemporanea, fatte le debite eccezioni (penso, ad esempio, a Trevi o a Starnone tanto per fare i primi due nomi che mi si vengono in mente), mi pare sempre più asfittica e diafana. Per il resto, continuo a scavare muovendomi tra la seconda metà dell’Ottocento e il secolo successivo. È stato un periodo pazzesco, segnato dalla presenza di autori veramente determinanti, tra quelli affermati e gli altri che sono rimasti come sempre ai margini: c’è ancora un Novecento da scoprire, diciamo così, che attende considerazione e soprattutto uno sguardo non compromesso con le solite prospettive.
-Come si pone oggi il ruolo dell’intellettuale nella società liquida?
Il problema non è tanto dato dal fatto che non ci sono più gli intellettuali di una volta, ma la questione vera è che sono pochi quelli che si mostrano disposti ad ascoltarli. I grandi quotidiani sono dannati, giorno dopo giorno, a una sorta di sbriciolamento delle vendite, all’evaporazione del loro peso specifico. È vero che ci sono altri spazi, altre platee, ma ne so poco, non oso pronunciarmi. Oggi però gli intellettuali mi sembra che siano stati soppiantati dai chierici, che ritornano ad avere voce purtroppo. Ma di intellettuali abbiamo bisogno più che mai: sono loro che creano le crisi senza doverle per forza risolverle. Ma sono utili nei tempi lunghi, si rivelano determinanti prima e dopo gli eventi, mai durante. Sono loro ad accorgersi che sta accadendo qualcosa di grave, nell’indifferenza generale. Danno l’allarme, spesso però non vengono ascoltati.
-È ancora attuale il pensiero di Antonio Gramsci sugli intellettuali e l’organizzazione della cultura?
Gramsci rimane un grande del Novecento, nonostante tutto (cioè malgrado le sue aberrazioni, le sviste, alcuni errori di interpretazione), come sapeva bene Eduard Said, ad esempio, che all’autore dei Quaderni del carcere ha spesso guardato. Quando Benedetto Croce, un altro italiano gigantesco con cui occorre tornare a fare i conti, provava a stabilire cosa fosse vivo e cosa fosse morto della filosofia di Hegel, dal canto suo Gramsci propose invece di provare a individuare cosa fosse morto o vivo di noi rispetto al filosofo tedesco. Ecco, questa mi pare una via molto produttiva per avvicinarci ai classici: che vivono per sempre, sono destinati a non scadere mai, al contrario di noi, comuni mortali, che siamo carne per i vermi (cito un grande americano), che siamo deperibili, che con un soffio evaporiamo.
-I critici contemporanei non fanno più paura,per loro i libri vanno tutti bene e vengono promossi senza lode?
Fanno poca paura, quasi sempre si comportano come le macchinette che obliterano i biglietti alla stazione dei treni. Si limitano a prendere atto, incensano per partito preso, si lasciano condizionare dagli uffici stampa. C’è pure da dire che le pagine dei quotidiani non di rado ospitano le pubblicità delle case editrici delle quali magari, nello stesso giorno, recensiscono le ultime uscite. È il serpente che si morde la coda.
-Le persone credono ai complotti per non accettare la realtà,cosa voleva dire Umberto Eco con questa espressione?
Sono in tanti a ritenere che ci sia qualcosa che sfugge, che si nasconde, un segreto insomma. Anche se questo segreto, come diceva Eco, è quasi sempre vuoto. È più facile abboccare a un discorso dietrologico che guardare coi propri occhi la realtà. Da ultimo la diffusione rapinosa del Coronavirus ha dato la stura a meccanismi del genere.
-C’è una maniera per rivalutare Giovanni Verga, lo scrittore e il fotografo?
Non penso che Verga abbia bisogno di essere rivalutato: si tratta di un gigante della nostra letteratura, che però ha pagato lo scotto amaramente per l’ansia sperimentale che l’ha mosso in tutte le direzioni. Su di lui grava il ciarpame di un’interpretazione scolastica avvilente, che l’ha ridotto a uno scrittore banale, a un certificatore del vero, a una specie di autovelox della realtà. Ma quanto invece è profondo, stratificato, complesso, a tratti respingente e poco consolatorio Verga: con la sua tecnica ha anticipato il cinema, le serie, ha svuotato come un guanto lo stile rotondo della nostra letteratura, ha lavorato ossessivamente sulla pronuncia lambendo risultati sorprendenti. È il più grande scrittore dell’Ottocento, assieme a Collodi e a Manzoni, sta accanto a Balzac senza impallidire un secondo, ha fatto della roba una sorta di talismano predatorio e di grimaldello per forzare la realtà, per rovesciarla e mostrarla nel suo negativo terribile. La sua passione per la fotografia, da un canto, ci dice del lavoro svolto con lo sguardo, della sua sete di immagini, di visioni; dall’altro, svela la sua fuga verso l’ignoto, il tentativo di acciuffare l’imprendibile.
-Il linguaggio e le idee di Pasolini così come la sua vita, hanno messo in discussione convenzioni consolidate che gli sono costate emarginazione ed esclusione…
Pasolini è stata la spina del fianco di un’Italia papalina e provinciale, pronta allo scandalo, armata di paraocchi indecenti, animata da un urticante perbenismo. Il regista e scrittore friulano non ha fatto nulla per evitare lo scandalo e l’emarginazione, anzi: si è mosso nella direzione ostinata e contraria rispetto alle convenzioni e ai luoghi comuni, spesso con voluttà di martirio. La sua forza consisteva proprio nel groviglio tra linguaggio letterario e linguaggio del corpo, le sue idee si avvinghiavano ai suoi muscoli, ai suoi nervi. Idee spiazzanti, anticipatorie, geniali, fastidiose: come quelle contenute nel suo libro oggi più attuale, il più illuminante, ossia Descrizioni di descrizioni, dove ha allineato i pezzi vergati col cipiglio del critico militante.
-Calvino e le “lezioni americane”. Il maestro non smette mai di insegnare?
Le “lezioni americane” di Calvino, è risaputo, rappresentano il suo testamento. Sono lezioni capricciose e incantatorie, dentro le quali Calvino ha messo tutte le sue predilezioni, le sue ossessioni. C’è un’energia dell’intelligenza che forza le letture cristallizzate con una grazia mai vista, c’è lo sguardo acuto, dello scoiattolo, che individua traiettorie, incroci, copule. Solo un lettore titanico come lui poteva dar forma a un universo d’inchiostro che ancora oggi ci sollecita e ci interroga. Lì l’autore di Il sentiero dei nidi di ragno ha davvero dato il meglio di sé.
-Perché lo scrittore Antonio Russello non è arrivato al grande pubblico: prima viene pubblicato con grande enfasi, La luna si mangia i morti promosso nello stesso periodo in cui il Gattopardo veniva bocciato, e poi il libro viene abbandonato e molti in Italia tuttora non lo conoscono. Cosa è successo realmente, cosa non è stato ancora raccontato dello scrittore favarese?
Antonio Russello aveva le carte in regola per potersi affermare come scrittore vero, con un mondo da esprimere, un risentimento da far esplodere. Il suo esordio è stato per lui croce e delizia: Vittorini, che probabilmente nell’esergo della scrittura di Russello ha intravisto il suo magistero, l’ha sponsorizzato, sostenuto. Per poi, però, abbandonarlo subito dopo, probabilmente impressionato dal metamorfismo di Russello, che ha pagato lo scotto di voler sempre osare, cancellando le tracce per inventarsi un nuovo cammino. Dai giudizi dei lettori di professione a servizio della Mondadori viene fuori lo sconcerto per l’imprevedibilità di Russello, per la sua sfrontatezza. Insomma, il suo stile mobile l’ha danneggiato. Quando infatti in casa editrice arriva Giangiacomo e Giambattista, il vero capolavoro dello scrittore favarese, la reazione è di sorpresa e anche di fastidio, per il fatto che Russello non solo avesse abbandonato la sua Sicilia quale scenario e vettore tematico, ma che pure si fosse cimentato in un racconto filosofico che lontanamente riecheggiava certe pagine di Calvino (il Calvino del Barone rampante). Ora, Russello con Calvino ha poco o nulla in comune, ma uno come Niccolò Gallo, cioè un lettore geniale, uno scopritore straordinario di talenti, pur lodando i punti di forza del romanzo non gli perdonò il peccato di lesa maestà nei confronti di un guru come Calvino appunto.
-I siciliani e la mafia: una storia da rivedere. A Palermo in molti sapevano ma hanno lasciato campo libero ai violenti. Tutti assolti e la mafia sentitamente ringrazia. È ancora attuale il pensiero di Sciascia sulla giustizia?
Penso proprio di sì: è attuale perché si tratta di un pensiero che incrocia il dramma di Cosa nostra ma, nello stesso tempo, affronta altre questioni, pone problemi che abbracciano realtà più complesse e stratificate. Quanti ciarlatani, quanti professionisti della parola hanno provato a fare le scarpe al grande racalmutese. Ce l’hanno messa tutta per coglierlo in castagna, per evidenziarne contraddizioni e ambivalenze. Ma la forza del pensiero di Sciascia è più forte delle sue argomentazioni. Sciascia è fratello d’inchiostro di Dürrenmatt, di Simenon, non ha nulla da spartire con i chierici e gli scribacchini che ne hanno insolentito la memoria.
-“Se non diventerete come bambini” il mondo non cambierà: qual è la chiave di lettura del tuo ultimo libro uscito per i tipi del Palindromo?
Sono molto legato a questo volumetto da poco uscito in libreria perché ricapitola alcune questioni per me fondamentali in letteratura, come lo sguardo, la voce che narra, i miti dell’infanzia. Il titolo è un prestito evangelico: allude alla necessità di ritrovare quella dimensione che riteniamo perduta, ma che invece rimane spesso intrappolata sotto le macerie dei nostri ricordi e della nostra formazione. Non si vede l’ora, da bambini, di poter mettere piede nel mondo degli adulti: da qui una smania senza fine, un sentimento di menomazione che caratterizza i bambini, i piccoli. Gli adulti, dal canto loro, pargoleggiano, fanno di tutto per far sentire i bambini inadeguati, incompiuti, sollecitandoli a diventare maturi, ad abbandonare i sogni, a smantellare la fantasia. È questa la vera perversione che andrebbe stigmatizzata: lo aveva intuito perfettamente uno scrittore grande e misconosciuto come Alberto Savinio, che aborriva gli adulti assoluti appunto, quelli che obliterano l’infanzia, considerandola come una sorta di interregno imbarazzante.
-Ciaula, prigioniero nelle grotte di internet, è convinto che il mondo reale sia tutto lì…
Hai ragione: oggi Ciaula incarna la condizione di tanti nostri adolescenti, prigionieri di un mondo patinato e apparentemente perfetto, un mondo che è una trappola subdola. È, quella dei cellulari e di tik-tok, una droga ancora più pericolosa e subdola della cocaina vera. Ciaula non è altro che la riscrittura del mito platonico, un mito che ancora oggi ci tallona e ci sollecita, inoculando tarli inquietanti. Il problema è sempre il solito: a scuola si continua a leggere questa novella sotto il giogo di una interpretazione polverosa e superata.
-Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello la tecnologia divora l’uomo: quello che ci sta succedendo è forse l’avveramento della profezia pirandelliana?
Hai citato uno dei capolavori di Pirandello, ancora oggi poco conosciuto, un romanzo che i docenti di solito guardano con sospetto, quando e se lo guardano. Perché in realtà lo ignorano colpevolmente, considerandolo ostico o troppo disturbante. Non a caso il grande Walter Benjamin a questo romanzo fa riferimento nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Pirandello si accorge che l’attore cinematografico si sente come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma dalla propria persona. E questo malessere dell’attore davanti all’apparecchiatura, per come lo descrive l’autore, assomiglia al senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine nello specchio. Ne sa qualcosa Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno, centomila.
-Quali segreti ci sono nel libro Il piacere di essere un altro scritto con Roberto Andò. È una biografia o un’intervista?
C’è il segreto dei segreti, ovviamente non svelato: il segreto della creatività, dell’immaginario, della genialità. È un libro che agglutina in sé la biografia, la dinamica del dialogo, la confessione, la conversazione soprattutto. Andò, che è un artista rinascimentale piombato nel nostro secolo, sa affrontare qualsiasi tema: da una suggestione, da uno spunto riesce a prendere le mosse per poi squadernare la sua storia, che è avvincente ed esemplare. Basterebbe pensare agli incontri che l’hanno puntellata per trasecolare: da Sciascia a Pinter, passando per Rosi, si snoda una galleria di giganti del Novecento. Roberto è la somma di quanto ha letto, di quello che ha scritto, degli artisti che ha conosciuto e frequentato, dei rovelli che non lo abbandonano, dei palcoscenici che ha calcato, delle storie che ha immaginato e che continua a fantasticare. Ed è l’ultimo dei grandi siciliani (mitteleuropei) di una certa specie: andrebbe messo sotto teca.
-Le bugie del tempo in cui viviamo sono tante qual è quella più vistosa per uno scrittore come te?
La bugia più vistosa rimane quella della letteratura, che è sempre invenzione. La letteratura è finzione. Ogni grande scrittore è un grande imbroglione. Giorgio Manganelli non a caso all’idea di “letteratura come menzogna” ha dedicato una raccolta di saggi memorabile, nella quale egli parla dell’opera letteraria come “artificio”, “artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione”, parola che inventa universi. Menzogna, bugie: ma di una specie particolare, visto che esse si trasformano in realtà attraverso la mediazione dei lettori, i quali entrano in contatto con le invenzioni e le imposture degli scrittori e ne vengono trasformati, contaminati.
-Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto lavorando a un libro su Pirandello, che rimane l’autore più cruciale per la mia storia di lettore. Ma che ha a che fare pure con la mia infanzia: ho pochi ricordi di quel periodo, uno di questi però è dolcissimo e mi conforta ogni qual volta si ripresenta. È un pomeriggio di primavera, mio padre che lavorava come un forsennato si concede una pausa. Anche mia madre mette da parte compiti da correggere e le solite urgenze legate alle faccende domestiche: andiamo in macchina da Santo Stefano verso Bivona, per poi fermarci e fare due passi in aperta campagna. I fiori colorati, l’aria che frizza e inebria: sento mia madre che parla appassionatamente con mio fratello e nomina diverse volte Luigi Pirandello, con un’intensità particolare. Torno a casa con in testa questo nome che rimbomba, al quale riconosco un’importanza che non so spiegare. Vorrei che emergesse un Pirandello misterioso e sommerso, ci sto provando. E poi ci sono i progetti concepiti in sinergia con il mio allievo, Alessandro Cutrona, che è un motore mobile di entusiasmo e di proposte.
Biografia
Salvatore Ferlita, nato a Palermo nel 1974, è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna Kore, dove insegna Letteratura italiana contemporanea e Scrittura in lingua italiana. Collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana) e dirige diverse collane editoriali. Ha al suo attivo più di quindici volumi.
Un ringraziamento a Salvatore Indelicato, Angelo Pitrone, Gianfranco Iannuzzo e Alessandro Cutrona per le foto.