La Ribera che vale: Marianna Alessio vincitrice della borsa di studi intitolata a “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”

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Protagonista di questa settimana è Marianna Aida Alessio, ventinovenne riberese, vincitrice della borsa di studi intitolata a “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” destinata ai laureati con il massimo dei voti che abbiano conseguito un titolo di Laurea magistrale in Giurisprudenza, Economia e Scienze Politiche nelle Università siciliane. La borsa è finalizzata alla promozione di attività di studio e ricerca da compiersi nel campo della criminalità organizzata di stampo mafioso. Essa è indetta tramite concorso all’interno del quale ogni candidato è tenuto a presentare un dettagliato progetto di studio, ricerca e documentazione sulla tematica che intende affrontare e, allo stesso tempo, delineare gli obiettivi che con la sua attività mira a raggiungere laddove questa venisse finanziata. Ogni progetto è giudicato da una Commissione di esperti nominata dal Presidente della Fondazione, la prof.ssa Maria Falcone.

Hai partecipato al concorso trattando un argomento molto delicato, ovvero quello del rapporto tra Mafia e Chiesa. Spiegaci quale approccio hai utilizzato e quali punti salienti ha abbracciato il tuo lavoro?
Ci tengo a precisare che il mio lavoro è ancora in fase di ricerca e non so ancora a quali risultati mi condurrà. Certamente, l’approccio al tema deve essere di tipo interdisciplinare. L’argomento Mafia-Chiesa è un argomento molto complesso che tocca vari ambiti: quello antropologico, sociologico, storico, psicologico e giuridico. I testi su cui finora mi sono imbattuta hanno sì, provato ad analizzare la tematica ma solo all’interno delle proprie categorie disciplinari. Con il mio lavoro, vorrei provare a spingermi oltre: cercherò di studiare il tema sotto ogni duplice aspetto e tracciare una linea comune che, partendo dalle premesse storiche sul controverso legame che nel tempo si è instaurato tra uomini di onore e religione, arrivi a soluzioni attuali che possono essere in grado di assurgere a modelli condivisi tra Stato e Chiesa, in particolare tra comunità ecclesiali ed istituzioni civili, non soltanto per purificare la devozione popolare (processioni, santuari, comitati di festa) dalle infiltrazioni mafiose ma per restituire dignità alle persone ed alle società controllate dalla criminalità organizzata.

Come ti è stato comunicato che avevi vinto la borsa di studi? Cosa hai pensato dopo la notizia?
Intercorsero alcuni mesi tra la data in cui presentai il mio progetto di ricerca e quella in cui ricevetti il telegramma dove mi comunicarono la vincita della borsa di studio. Alla notizia piansi. Piansi tanto. Vedi, fino a poco tempo fa pensavo che di emozioni come quelle vissute il giorno della mia laurea o dell’abilitazione difficilmente si potessero ripetere in quanto frutto di un enorme sforzo che, solo dopo, viene ripagato. Ma evidentemente mi sbagliavo. La sensazione che ho avvertito quando mi comunicarono la vincita è stata qualcosa di indescrivibile molto più grande di quelle vissute prima ad ora. Forse perché ho partecipato a questo concorso senza darmi alcuna aspettativa. Ma d’altronde come puoi quando gli indici di difficoltà sono troppi. Il fatto di competere con laureati di tutta la Sicilia con il massimo dei voti sta ad indicare non solo la difficoltà di emergere tra tanti ma tra quei tanti il cui livello di bravura si presume sia alto. Un altro indice di difficoltà, di non poco conto, sta anche nella fase che precede il concorso: il fatto che le borse siano erogate dal 1994 è sicuramente una cosa che inorgoglisce molto la Fondazione ma allo stesso tempo richiede un impegno maggiore in termini di intuizione e lungimiranza a tutti coloro che intendono parteciparvi. Trovare argomenti nuovi e interessanti che dal 1994 ad oggi non siano stati ancora affrontati e quindi premiati è cosa abbastanza ardua soprattutto quando non hai possibilità di spaziare essendo la tematica di riferimento sempre e solo una: soluzioni di contrasto alla criminalità organizzata. Anche quest’ultimo indicatore ha fatto sì che le mie aspettative rimanessero basse. Credevo nella forza delle mie argomentazioni, sapevo di portare un argomento di un certo spessore ma temevo che la sua interdisciplinarità, le sue ricadute in altri settori di studio, non fossero ben accette da una commissione formata prevalentemente da giuristi. Ma mi sbagliavo, ciò che è stato apprezzato è stato proprio questo. Credo che siano state tutte queste componenti a rendere questa vittoria unica nel suo genere anche in punto di emozioni. E forse è proprio questo che lo rende diverso da una laurea o da un’abilitazione professionale.

Il rapporto tra Mafia e Chiesa nel corso degli anni è stato caratterizzato da luci ed ombre. Ad oggi qual è la posizione della Chiesa? Continuano a prevalere le ombre?
È un fenomeno che nonostante abbia origini remote continua ad essere non solo di consistente rilevanza ma anche di sicura attualità. Sicuramente perché ancora irrisolto e perché spesso sottovalutato dall’opinione pubblica come dagli esperti della criminalità organizzata e dagli specialisti delle religioni cattoliche. Da questo punto di vista la Chiesa sconta un notevole ritardo in tema di contrasto alla mafia che muta a partire dagli anni 80 del secolo scorso e si interrompe definitivamente nel 1993 con il celebre discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi. Da quel momento in avanti la tendenza alla prudenza ed alla sottovalutazione comincia ad assottigliarsi sia sempre con mille incertezze, con i tempi lunghi che da sempre segnano l’attività ecclesiale, naturalmente refrattaria a rotture improvvise, fino a trovare un suo sbocco decisivo con Benedetto XVI e, infine, con Papa Francesco. Le ombre ed i silenzi di quegli anni hanno certamente contribuito ad alimentare l’accrescimento della mafia nella società meridionale dando luogo a strumentalizzazioni, equivoci e commistioni con cui ancora oggi ci dobbiamo confrontare.

La beatificazione di Don Puglisi e la recente scomunica di Papa Francesco ai mafiosi risolvono il problema?
Se c’è del vero in quanto finora ho affermato circa l’ambiguità dell’atteggiamento ecclesiale in merito al fenomeno mafioso c’è del vero anche nelle contrapposte posizioni che ricordano il sacrificio estremo di alcuni preti meridionali, lo sforzo quotidiano di tanta parte dell’associazionismo cattolico, le esperienze straordinarie di tanta gente maturate nel corso di questi anni nei luoghi più nascosti del Paese che hanno ravvivato la speranza, la legalità, il rifiuto della violenza e dei soprusi. Per dirla banalmente la storia della Chiesa non è solamente quella di Don Frittitta che nel 1999 venne condannato, e poi assolto in Cassazione, per favoreggiamento della latitanza di un boss mafioso ma è anche quella di Don Pino Puglisi, che non necessariamente si è proclamato prete contro qualcuno o qualcosa, ma ha semplicemente agito come ministro che, con la sua fede creduta, praticata e celebrata ha contribuito ad offrire alla comunità ecclesiale un nuovo orientamento pastorale soprattutto in direzione politica e sociale. Lo stesso sta compiendo Papa Francesco nel suo magistero al fine di tracciare un solco tra chi crede nel Vangelo e chi crede nella violenza. Operati di questo tipo non so ancora se saranno la soluzione al problema Mafia-Chiesa, forse questo potremmo dirlo tra qualche anno, ma costituiscono certamente un risvolto di cui bisogna tenerne conto. Più che soluzioni tenderei, infatti, a definirle strade alternative, chance di cambiamento che si prospettano ai giovani e meno giovani che sono nati e cresciuti nelle periferie del malaffare al fine di offrire loro, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, un percorso di libertà e di umanità.

La Mafia continua ad attingere alla simbologia cattolica per dare dignità alle proprie azioni?
Il primo elemento che lega questo controverso rapporto è relativo all’uso di una simbologia e una ritualità religiosa su cui molto si è dibattuto. L’attaccamento dei mafiosi al Vangelo, le cui parole già rappresentano un ossimoro, non si è mai limitato ad essere un mero fatto di coscienza ma ha avuto molteplici forme di manifestazione: dall’uso tra gli associati di un linguaggio pieno di rifermenti religiosi, dalla partecipazione ostentata degli stessi mafiosi ai riti più sentiti della popolazione, all’utilizzazione dei sacramenti (specie del battesimo). Sicuramente sono atti completamente svuotati dell’essenza di Dio e che esaltano solamente gli aspetti folkloristici di una religione. Alcuni studiosi ritengono che l’uso della religione da parte dei mafiosi è uno degli elementi essenziali che interviene a liberare quest’ultimi dalle situazioni di maggiore conflitto interiore in quanto il ricorso alla giustizia divina viene ritenuto coincidente con quello della giustizia mafiosa. Su queste considerazioni io, in realtà, sono un po’ scettica, sicuramente c’è del vero ma non credo funzioni per tutti allo stesso modo. Sono più orientata, invece, ad annoverare questo pseudo attaccamento al Vangelo tra le varie forme di consenso sociale. Vedi, i mafiosi sono specialisti delle relazioni sociali e per dispiegare efficacemente questa loro competenza hanno bisogno di possedere e mantenere un radicamento, una legittimazione, un’appartenenza alla cultura del luogo in cui si muovono che gli viene anche, ed in prevalenza ancor oggi, dalla partecipazione ai riti, alle cerimonie e più in generale alla partecipazione visibile e riconosciuta alla Chiesa cattolica.

Prima o poi scomparirà del tutto lo stereotipo Mafia= Chiesa?
A questa domanda tengo dare due risposte e a scindere in due parti l’argomento in questione. Nelle definizioni finora date ho sempre fatto attenzione a non confondere il concetto mafia-Chiesa con quello mafia-religione. Quando infatti, negli argomenti che ci riguardano, si parla di Chiesa, spesso si fa riferimento ad essa in quanto istituzione annoverando al suo interno tutte le categorie che vi operano, in particolare i soggetti ordinati. La denuncia del rapporto mafia-Chiesa volge esclusivamente lo sguardo a quella compagine ecclesiale che, ritornando alla risposta precedentemente data, ha vissuto per lunghi anni nel silenzio, nell’indifferenza o addirittura nella complicità. Orbene, in questo contesto credo che lo spostamento progressivo della Chiesa-istituzione su posizioni di contrasto alla mafia più avanzate e meno contradittorie rappresenta una grande conquista e speranza per eliminare del tutto lo stereotipo in questione. Per quanto concerne, invece, il concetto di religione lì la cosa diventa più complessa: se la religione è usata come strumento esterno di consenso sociale che si acquisisce con la partecipazione ai riti, feste popolari, comitati e sacramenti questo stereotipo potrà essere distrutto solo quando ci sia non solo una ferma opposizione da parte del clero ma anche un vigile controllo da parte delle autorità statali. Solo quando questa sinergia sarà messa in moto si potrà utilizzare la parola fine. Per quanto concerne, invece, l’utilizzo della religione come fatto intimistico e di mera coscienza, lì ho i miei dubbi. E forse le dinamiche da indagare sarebbero di tipo psicologico. È certo che gran parte degli uomini e donne di mafia praticano la fede con molto più rigore di tanti altri pensando che i valori del cristianesimo si conformano perfettamente al loro credo borghese. La famiglia, l’onore, l’infedeltà da condannare sono tutte categorie ascrivibili al loro modo di pensare e agire e che si tramandano da generazione in generazione. Per interrompere questo legame bisognerebbe far capire loro che la loro fede è totalmente vuota di contenuto, e non perché hanno una coscienza erronea della stessa ma perché è molto più vicina al paganesimo o addirittura all’idolatria. E tutto questo potrà essere fatto solo dopo che ci sia stato, da parte del singolo, un ravvedimento ed un cammino teso non solo alla collaborazione con lo Stato ma anche con Dio. È un aspetto molto complicato che va oltre la categoria del “pentitismo di mafia” prevista dal diritto e che abbraccia anche gli aspetti più intimi della persona. Per questo ho seri dubbi sulla sua riuscita.

Pensi sarà possibile raccontare un giorno una storia che inizi con “C’era una volta la mafia”?
Forse nella mia risposta sembrerò un po’cinica ma io, in questo momento, non mi sento di darti una risposta in senso positivo. Mi spiego meglio. La prima volta che scrissi sulla mafia avevo 13 anni, andavo in terza media, lo ricordo come se fosse ieri. In vista del tema da affrontare studiai e mi documentai sull’argomento per un’intera settimana. All’epoca non esisteva internet ma l’enciclopedia che si riponeva tra gli scaffali di casa e qualche rivista di giornale come “L’Espresso” a cui mio padre annualmente si abbonava. Ero molto curiosa sull’argomento tanto che nel compito in classe scrissi più di quattro facciate. Ricordo che conclusi il mio tema con una frase del tipo: “forse per estirpare la mafia ci vorrà tanto tempo, quanto quello che l’ha prodotta”. Orbene, nonostante a quel tempo si siano aggiunti altri 16 anni, quella frase rimane sempre attuale e ancora si potrebbe utilizzare. Questo per dirti che di passi in avanti sicuramente se ne sono fatti, ma risultano ancora pochi. Spesso, quando si parla di mafia si pensa solo alle stragi che hanno insanguinato le strade meridione, agli uomini di onore che si fanno baciare le mani, al pizzo estorto all’imprenditore ma bisogna capire che la mafia non è solo questo e che la lotta non può passare esclusivamente dalle istituzioni ma da ogni singolo cittadino. L’immagine che essa intende dare di sé va a passo con i tempi e muta anche nel suo modo di presentarsi: è nel gioco, nella droga acquistata, nella 16enne nigeriana che la notte sta sul marciapiede, nei parcheggiatori abusivi che tutti con molta disinvoltura paghiamo. Fino a quando non ci sarà consapevolezza di tutto ciò, fino a quando si continuerà a pensare che farsi le canne, andare a prostitute, diventare succubi da gioco e scommesse non equivale a pagare il pizzo allora il “c’era una volta” saremo costretti, ancora per lungo tempo, a lasciarlo alle favole.

Un messaggio per la tua città.
Il primo vorrei rivolgerlo ai tanti giovani come me che, spinti dal sacrificio, credono ancora in quella parte buona di società che non si compromette, che premia il merito ed investe nell’istruzione. Vorrei dire loro di non abbassare mai la guardia, di lottare sempre per le cose in cui si crede e di non farsi scoraggiare mai da chi, con senso di disprezzo e abbandono, dice sempre “ma chi a fari, non vale la pena nemmeno provarci, tanto si sa che passano solo i raccomandati”. Ecco, non date retta a questa gente perché ciò che vi sto a dire non è retorica ma esperienza vissuta sulla mia pelle. Se oggi mi muovo all’interno dell’università, se sono riuscita in breve tempo a raggiungere dei traguardi professionali e ottenere prestigiosi premi l’ho fatto solo grazie alla mia tenacia, alla forza delle mie argomentazioni e, questo mi inorgoglisce molto, al rifiuto di qualunque “aiuto” che non sia stato il supporto della mia famiglia e la preghiera. Infine, per rimanere in tema su quanto finora trattato, un ultimo messaggio vorrei rivolgerlo a tutti coloro che nel mio Paese vivono, o pensano di vivere, a contatto con la fede. Vedi, analizzare andamenti sociologi sull’uso della fede a prescindere da quale categoria di soggetti li stia trattando mi ha portata ad una avere un occhio più critico e attento a certe dinamiche. Ribera si sa, è un Paese che vive a stretto contatto con la religione, soprattutto durante le festività. Ecco, quest’anno durante le varie processioni a cui ho partecipato mi sono accorta che molta gente partecipa senza alcun coinvolgimento emotivo nella preghiera, senza rispettare i silenzi e i luoghi. Ma qual è il senso di andare in processione o in parrocchia se poi, una volta giunti li, ci si prende a braccetto con la persona a fianco e si inizia a confabulare del più e del meno? Qual è il senso di fare fioretti, con il cibo ad esempio, se poi con la propria bocca ci si presta facilmente a pettegolezzi e maldicenze; o, ancora, ostentare la propria partecipazione a comitati e confraternite magari prendendo in spalla una statua se poi, nella routine della tua vita quotidiana, sono più i turpiloqui che pronunci che le parole di spirito e saggezza. Tutto questo può sembrare banale o addirittura eccesivo nelle mie parole ma credimi il benessere della società in cui si vive, e di cui a Ribera ne sento sempre più richiedere, non passa solo attraverso l’aspetto economico ma anche attraverso la trasmissione di valori che non necessariamente devono avere una matrice cristiana ma devono essere l’espressione di un senso di appartenenza autentico ad una famiglia, ad una comunità che si muove sulla base di valori condivisi. Esaltare gli aspetti folkloristici di una religione, pensare di liberare la propria coscienza con la mera presenza di fronte a Dio non contribuisce certo a renderci uomini migliori. Se il cambiamento inizia da queste piccole cose, se si inizia a dare il proprio contributo sulla base di ciò che si è e si ha, compresi i nostri limiti, e non necessariamente su come si vuole apparire allora, il tanto auspicato benessere sarà più vicino di quanto si possa immaginare.